Cronache
Covid, effetti devastanti di lungo periodo: dispnea, memoria, problemi renali
Nebbia nel cervello e difficoltà a respirare. Su chi è stato colpito duramente gli effetti possono persistere per lungo tempo. Tarro: “Si, è vero”.Alcuni studi…
Altro che negazionisti, gli effetti del Coronavirus possono essere devastanti e sentirsi sul lungo periodo per chi è stato duramente colpito dalla malattia. Diversi studi pubblicati e studiosi del fenomeno raccontano della persistenza, anche dopo la fine delle cure, di gravi problemi renali e sul sistema nervoso, l’incombenza di un senso di affanno profondo dovuto alle difficoltà respiratorie, persistenti dolori alle ossa e ai muscoli al livello del torace.
“Si, è vero”, spiega ad Affaritaliani il professor Giulio Tarro, “ci sono molti studi in merito perché come in ogni infezione in alcuni soggetti ci sono dei prolungamenti, anche a livello del sistema nervoso o che riguardano diversi organi come il rene, per esempio. Nella seconda sindrome della Sars, mi riferisco a quella sviluppatasi in medio Oriente, una persona aveva iniziato ad avere problemi respiratori ed è morta per blocco renale. C’è poi uno studio statunitense durante l’attuale epidemia che ha mostrato come durante la diffusione fosse importante avere in tutti i reparti almeno la dialisi perché c’è la necessità per questi pazienti di ricorrervi. Tutti i reparti newyorkesi hanno predisposto la strumentazione per fare la dialisi. Faccio un esempio: in un reparto normale solitamente la necessità di dialisi è del 20% ma una volta intubati la necessità passa al 90%. Ci sono poi anche i primi studi cinesi che spiegano di effetti anche a lungo termine sul sistema nervoso perché attraverso la via olfattiva c’è la possibilità di accesso del virus al sistema nervoso”.
L’entità dei danni sul lungo termine è uno degli argomenti al centro di diversi studi. Camilla de Fazio per Quotidiano Sanità ha intervistato il Dottor Angelo Carfì, geriatra alla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e primo autore di un articolo pubblicato su JAMA che ha analizzato i sintomi lamentati dai soggetti a circa due mesi dalla dimissione ospedaliera. L’intervento di Carfì conferma il quadro descritto da Giulio Tarro.
“Anche quando abbiamo l’influenza avvertiamo questo senso di stanchezza”, ha spiegato Carfì ,“ principalmente dovuto alle citochine infiammatorie rilasciate dal sistema immunitario al fine di arginare il patogeno invasore”. La sensazione di fatica fisica e spossatezza potrebbe anche essere dovuta “all’impatto devastante che ha avuto la patologia non solo dal punto di vista organico ma anche sul morale, sulla motivazione, sull’aspetto cognitivo”. Infatti la drammaticità del percorso intrapreso tra emergenza sanitaria inedita, ricovero, terapia intensiva e intubazione è un’esperienza traumatica elevata.
Il dottor Michael Marks, specialista in malattie infettive alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, intervistato dalla rivista Science, ha spiegato l’importanza di poter individuare subito questi sintomi al fine di poterli gestire una volta finita la fase più acuta della malattia.
Uno dei sintomi più diffusi è la dispnea, cioè problemi respiratori, difficoltà a rifiatare, affanno. Questo perché gli organi più colpiti sono i polmoni che per ricostruirsi completamente hanno bisogno di un tempo congruo di guarigione.
Il neurologo Michael Zandi citato nell’articolo di Science, sottolinea come anche malattie comuni come la polmonite possono necessitare di un periodo di recupero di circa un mese. Anche se il Covid-19 è un’infezione più leggera della Sars e della Mers attualmente nessuno è in grado di prevedere gli effetti sul lungo termine anche se tutte queste infezioni sono caratterizzate da effetti profondi sui polmoni.
Sempre Quotidiano Sanità racconta come uno studio condotto sugli operatori sanitari affetti da Sars nel 2003 ha rilevato che coloro che presentavano lesioni polmonari un anno dopo l'infezione le avevano ancora dopo 15 anni. Un altro studio, cinese, mostra che 12 anni dopo aver contratto il virus Sars-Cov, un piccolo gruppo di pazienti sopravvissuti era più incline alle infezioni (la metà dei pazienti aveva avuto almeno cinque raffreddori nell’anno precedente).
Ha avuto una rilevante eco l’esperienza del giornalista della Cnn Richard Quest, risultato positivo al Covid-19 ad aprile. Uscito dalla fase acuta ora riscontra disturbi non lievi. Quest racconta di “tosse ansimante dritta dalle vie respiratorie” e di ritorno dei sintoni nei mesi successivi una volta scomparsi gli anticorpi.
“Sono sempre stato un po’ goffo”, ha spiegato il giornalista, “ma qui ho anche una confusione, quella che Anthony Fauci chiama nebbia nel cervello, non è smarrimento, ma più un fermarsi, un com’era? Ah ecco, come se la mente diventasse un po’ brumosa. Ma poi dopo pochi secondi vai avanti”.
Molti esperti chiamano questo tipo di condizione “nebbia nel cervello”. Uno dei sintomi che può insorgere successivamente all’uscita dalla fase più acuta è la difficoltà a pensare con chiarezza, con connessi problemi di memoria. Non è chiaro come questo processo si sia innestato ma i test effettuati dimostrerebbero una fase di rallentamento cognitivo in chi è stato colpito duramente dal virus, che dovrebbe col tempo andare gradualmente a sparire.
Si riscontra anche che dopo la cura in alcuni pazienti persistano tosse, perdita del gusto e dell’olfatto, mal di testa, vertigini, insonnia, rash cutanei e aritmia.