Cronache
Delpini sulla terrazza del Duomo: un’immagine che entrerà nella storia

Ci sono simboli che servono solo a pavoneggiarsi. E simboli nei quali tutti si riconoscono e ai quali si ricorre in tempi particolari. Prendiamo la Madonnina che dal 1774 vigila sulla città di Milano dalla guglia più alta del Duomo. Qualche anno fa è stata superata in altezza dai grattacieli di City Life (ma come si fa a chiamare un quartiere così?). Era l’epoca del delirio “grattacielaro” (copyright Camillo Langone), della Milano da bere 4.0 la cui illusione è stata ben delineata da Camilla Baresani in Gelosia (La nave di Teseo): «Sul loro passato che stava per svanire incombevano le sagome del Dritto e dello Storto, oltre al cantiere del Curvo. I tre grattacieli di Isozaki, Hadid e Libeskind che nella vulgata promozionale dovevano rendere belle, moderne e internazionali le loro vite formichinesche».
Mercoledì scorso, in un’immagine che resterà negli annali della storia, l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, è salito sulle terrazze del Duomo deserto, brulicanti fino a qualche settimana fa di turisti, per invocare a tu per tu, in diverse lingue, la Madonnina che «te dominet Milan». Una Milano vuota, immersa in un silenzio surreale, baciata dal sole generoso di questa inquietante primavera.
Mai si era vista un’immagine simile. Mai s’era visto il pastore della Chiesa ambrosiana pregare in cima al Duomo riadattando le parole della celebre canzone del maestro D’Anzi, Oh mia bela Madunina. Delpini ha chiesto aiuto, conforto e protezione alla Vergine per i morti, i malati e i medici, «un messaggio», ha scritto Gian Giacomo Schiavi sul Corriere della Sera, «da tempo di guerra che segna l’eccezionalità di questi giorni: il coronavirus è ormai una nuova pestilenza, un incubo di cui bisogna avere paura». La Madonnina, sua Majestaa, come la chiamava il Porta, è tornata a essere l’anima e il cuore di Milano. Altro che i grattacieli e il Bosco Verticale.
Credenti o altro che si sia, la preghiera di Delpini ha colpito tutti per la sua portata simbolica. Milano, da Sant’Ambrogio in poi, vanta una lunga tradizione di pastori che hanno saputo esercitare il loro magistero in campo civico oltre che religioso. Come San Carlo Borromeo che in una città prostrata dalla peste, dove ogni famiglia piangeva i suoi morti, nell’abbandono delle autorità civili, indisse tre processioni penitenziali che avrebbero attraversato la città, nei giorni 3, 5 e 6 ottobre 1576. In quest’ultima, che dal Duomo si diresse verso la basilica di Santa Maria presso San Celso, l’arcivescovo portò la Croce con la reliquia del Santo Chiodo, ancora oggi custodita in Duomo. Come il cardinale Federigo Borromeo, cugino di San Carlo, che nella carestia del 1628 operò instancabilmente a favore degli affamati e durante la peste del 1630 si distinse per il suo zelo verso gli ammalati, come raccontato magistralmente Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi. Come il cardinale Martini, arrivato a Milano il 10 febbraio del 1980, nella stagione del terrorismo, che seppe prendere per mano la città smarrita con fermezza e dolcezza sino a costituire un punto di riferimento importante mentre tutto attorno le istituzioni, la convivenza sociale, la moralità pubblica, scricchiolavano pericolosamente. All’arcivescovo i terroristi consegnarono le armi nel 1984.
E proprio in quell’anno, il 20 aprile, Martini, come San Carlo, portò la Croce con il Santo Chiodo per le strade di Milano, per sollecitare la cittadinanza a prendere coscienza delle “nuove pesti” che affliggevano la società, dalla solitudine degli anziani e dei poveri, alla corruzione e al malaffare nella vita pubblica, che pochi anni dopo avrebbero portato a Tangentopoli, infettando la città e il Paese come e più il coronavirus di oggi. Come il cardinale Tettamanzi che nel 2008, agli inizi della crisi economica che avrebbe travolto le vite di molti, nella notte di Natale in Duomo annunciò la costituzione del Fondo “Famiglia – Lavoro” indicando una strada concreta che molte altre diocesi italiane hanno poi seguito.
Quando l’estate scorsa monsignor Delpini ha scritto la Lettera pastorale ha voluto intitolarla “La situazione è occasione”. Nessuno poteva immaginare la prova drammatica che di lì a poco Milano, la diocesi ambrosiana, l’Italia avrebbero dovuto affrontare. Un titolo profetico, impegnativo che contiene un suggerimento concreto, quello di alzare lo sguardo verso l’alto. Negli anni scorsi, gli anni dell’ubriacatura collettiva della Milano città-stato, della Milano traino del Paese, della superiorità economica rispetto al resto d’Italia, Delpini ha richiamato alla sobrietà e all’essenzialità, ha ricordato che una città può dirsi davvero morale se non dimentica gli ultimi, a cominciare da chi vive nelle periferie. E ai cristiani ha ricordato, instancabilmente, che una fede senza gioia è sterile manierismo.
Ora che tutto è drammaticamente cambiato, ora che Milano è smarrita, silente, col fiato sospeso, dove le certezze dell’altro ieri sembrano ben poca cosa di fronte al virus, monsignor Delpini si staglia come sentinella di speranza. Con le sue Messe a porte chiuse ma visibili a tutti grazie ai mass media, con la sua preghiera incessante culminata nell’invocazione alla Madonnina perché chi soffre non si senta solo e abbandonato e perché certi cristiani respingano l’idea di un Dio vendicativo, contribuisce a tener vive le braci per poter accendere, domani, il fuoco del riscatto e della ripartenza della città.