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Cronache
Epidemia di colera in Kenya: dieci morti

Dopo il terrorismo, in Kenya ora è il colera a mettere a rischio non solo l'esistenza futura del campo profughi di Dadaab ma soprattutto la vita di chi in esso ha trovato rifugio. Sono almeno 10 i casi accertati di persone morte per aver contratto la malattia e circa un migliaio gli ammalati nella struttura che accoglie soprattutto rifugiati somali, a nord-est del Paese, la più grande del mondo con suoi 350mila residenti.

Secondo quanto riferito da Osman Yussuf Ahmed dell'agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), l'epidemia si è manifestata a novembre. Il colera si trasmette soprattutto attraverso acqua contaminata da escrementi umani e a causa di precarie condizioni igieniche, che in questo caso sono state aggravate da settimane di piogge intense sul Kenya. Dopo un periodo di incubazione che va dai cinque ai dieci giorni, l'infezione dell'intestino provoca diarrea grave, disidratazione e, in assenza di un rapido trattamento, la morte nel giro di poche ore. "L'aspetto più importante è l'igiene" ha spiegato Ahmed, assicurando che da questo punto di vista l'Onu non ha lasciato nulla al caso e ha cosparso cloro nel campo e distribuito sapone ai rifugiati.

Il campo di Dadaab fu costruito nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre che consegnò la Somalia nelle mani dei vari "signori della guerra". Dal 1991, i somali in fuga dalla guerra civile e dalla carestia vi hanno trovato scampo in più ondate. Ma il campo di Dadaab è entrato nel mirino delle autorità del Kenya il 2 aprile scorso, quando si ritiene che miliziani di Al-Shabab partirono proprio da Dadaab per portare un attacco al campus universitario della città di Garissa, distante 80 chilometri. L'azione terroristica costò la vita a 148 studenti. Il governo aveva dato un ultimatum all'Unhcr: smantellare la gigantesca struttura entro tre mesi o avrebbe provveduto il governo al rimpatrio dei rifugiati somali. L'agenzia Onu aveva chiesto al governo del Kenya di tornare su una decisione che avrebbe avuto "estreme conseguenze pratiche e umanitarie" perché per molti dei rifugiati non sarebbe stato possibile rientrare in patria in piena sicurezza.

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