Cronache
"La mia bimba mi ha salvata": l'odissea di una donna vittima di abusi
Dalle violenze in famiglia alla seconda vita con un partner violento: solo grazie a sua figlia ha trovato la forza di lottare. La storia
Violenza sulle donne, l'odissea di una mamma vittima di abusi: "La mia bambina mi ha salvata, ma ora ci hanno diviso"
Alla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ancora molte, troppe sono le situazioni di soprusi, abusi che non conoscono un lieto fine. Storie di ragazze, adulte, anziane, mamme e non, che non sempre riescono a sfuggire alla morsa della violenza da parte, solitamente da parte del proprio partner. Il Redattore sociale ha dato voce ad A., una mamma che invece con forza e coraggio è riuscita ad uscire dall'incubo... grazie a sua figlia.
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“Mi ha salvata la mia bambina. Di me non mi importava niente, ma per proteggere lei sono riuscita a fuggire. Però credo che noi donne dovremmo essere più tutelate, quando denunciamo: io non mi sono mai sentita al sicuro, lui poteva avvicinarsi quando voleva e ho rischiato tanto”: A. è un fiume di parole e di emozioni, mentre racconta la sua storia. Una storia che inizia da lontano, dalla Romania, dove è nata 22 anni fa e ha vissuto i primi 6 anni: la violenza è entrata subito nella sua vita, con un padre “aggressivo”, così lo definisce. “Fin da piccolissime, ci bastonava le mani, a me e mia sorelle, per esempio se le cugine per gioco ci mettevano lo smalto. Quando ci siamo trasferiti in Italia, è peggiorato: beveva e giocava, picchiava mia madre e noi, lei non faceva niente per proteggerci. Più crescevamo, più diventava geloso, non ci mandava in gita scolastica, ci picchiava se all'uscita di scuola ci vedeva salutare i compagni, ci insultava. Una volta mi ha legato le mani e messo la testa sotto l'acqua fredda, perché non gli dicevo la mia password di Facebook”.
E' stata l'ex maestra delle elementari a convincere finalmente A. a denunciare il padre: “Ero alle medie, ma incontravo ancora la mia maestra. Si è accorda dei lividi che avevamo, io e mia sorella e ci ha accompagnate alla polizia. Abbiamo denunciato e siamo state trasferite in casa famiglia”. Di case famiglia ne ha cambiate diverse, A.: l'ultima a Napoli, dove ha vissuto fino a 18 anni: “Poi ho scelto di andarmene, anche se sarei potuta restare fino a 21 anni. Come prima cosa, sono andata in Romania, insieme a mia sorella, per fare i documenti che ancora non avevamo. Tornata a Roma, ho iniziato a lavorare in un ristorante, poi in un supermercato romeno, dove ho conosciuto quello che sarebbe stato il padre di mia figlia”.
Ed è iniziata, così, la seconda vita di A.: “All'inizio tutto andava bene, lui era tranquillo, io ero molto innamorata, sono andata a vivere da lui. Poi ha iniziato ad andare con altre donne e a trattarmi male, io ero gelosa e lui mi diceva che ero pazza, mi insultava e ha iniziato ad essere sempre più aggressivo. Faceva uso di alcol e di droga e perdeva spesso il controllo. Una sera, dopo una litigata, mi ha messo le mani al collo, mi ha spaccato il cellulare, mi ha chiusa in balcone. Ma io lo perdonavo sempre, non riuscivo ad allontanarmi: volevo andarmene, sentivo che dovevo farlo, ma non ci riuscivo. Invece, mi sono allontanata da chi mi voleva bene: dai miei amici, da mia sorella. Una sera, mentre eravamo in vacanza in Romania, mi ha picchiata con forza, mi ha spaccato il telefono, poi è uscito: io gli sono corsa dietro, lui mi ha picchiata di nuovo, in mezzo alla strada e mi ha lasciata lì, da sola e al freddo, senza soldi, senza telefono, senza niente. Sono riuscita a raggiungere la stazione e a tornare a Roma, grazie all'aiuto di un poliziotto e di mia sorella, che mi ha comprato il biglietto”.
A quel punto, A. era determinata a rompere ogni rapporto. “Ma ci sono ricascata: lui chiedeva scusa e io ritornavo. Finché ho scoperto di essere incinta. Io volevo tenere il bambino, lui diceva che forse ero troppo giovane. Avevo appena 20 anni, lui 27. Siamo tornati a vivere da sua madre, ma dopo che ho partorito è diventato un inferno: fin dai primi giorni lei mi faceva faticare dentro casa, io non mi reggevo in piedi, tra i cesareo e la bimba che non dormiva mai: lei era sempre agitata, io ero una giovane mamma inesperta, senza nessuno che mi aiutasse. E lui non mi aiutava, usciva sempre e con me diventava sempre più violento. Mia sorella si arrabbiava, mi diceva che dovevo farmi rispettare, ma io non ci riuscivo. Un giorno, lui in preda all'ira mi ha tirato con forza una caricabatterie addosso, mentre avevo in braccio la bambina. Aveva pochi mesi e ci è mancato poco che la colpisse in testa. In quel momento, ho capito che mia figlia era in pericolo: di me non me ne importava niente, ma per lei ho trovato il coraggio di andare via. Sono andata a vivere in una stanza accanto a mio padre, non potevo fare altro, non avevo niente. Ma una sera lui - (il padre della bimba, ndr) viene, con la scusa che vuole vedere la bimba, e pretende di avere rapporti con me, mi prende a schiaffi e pugni. Ho chiamato i carabinieri, per farlo andare via. E' intervenuta la Sala operativa sociale e mi hanno indirizzato a un centro di prima accoglienza. Anche lì, però, lui veniva quando voleva. Io non ero contraria, ci tenevo, nonostante tutto, che lui avesse rapporti con la figlia, visto che a me una famiglia era mancata. Ma quando veniva, pretendeva di avere rapporti con me, mi insultava, mi aggrediva.
Non mi sono sentita protetta, neanche dopo averlo denunciato. Poteva venire quando voleva e anche io continuavo a cedere: un giorno ero andata a trovarlo, voleva vedere la bimba e aveva bisogno di aiuto per lavare i panni, io non sapevo dirgli di no, ci tenevo tanto a lui. Era completamente ubriaco, ha iniziato a insultarmi. A un certo punto mi ha preso a pugni mentre avevo la bimba in braccio, non so come sono rimasta in piedi. Mi ha messo le mani al collo e gridava 'Ti ammazzo!' Sono riuscita a scappare, con la bimba in braccio che piangeva. Tornata al centro di accoglienza, ho chiamato la polizia e l'ho denunciato. Ho ottenuto l'allontanamento: da me, ma non dalla bimba. Di nuovo, però, è riuscito a convincermi a ritirare la denuncia, per permettergli – diceva – di venire al compleanno della bimba. Sono andata dalla polizia e l'ho ritirata, ma non ero convinta: sono tonata a casa piangendo, ho parlato con l'educatrice e lei mi ha convinta ad annullare la richiesta. Era così, lui riusciva a farmi sembrare matta”.
Dopo la denuncia, sono iniziate le indagini, che sono andate avanti per un anno. “Piano piano, sentivo che diventavo più razionale: ho cambiato numero e interrotto ogni rapporto con lui. Le indagini si sono concluse con l'allontanamento, ma non con l'arresto. Dal centro di prima accoglienza, siamo state trasferite, io e la bambina, in una casa famiglia a Morlupo, perché non si può stare più di tanto tempo (180 giorni, ndr). Lì ci siamo trovate molto male: sembrava un carcere, le educatrici bevevano, io sono impulsiva e così mi lamentavo, denunciavo, mi hanno sorpresa a filmare quello che vedevo. Allora hanno fatto una pessima relazione su di me: dopo un mese, mi è arrivato il decreto del Tribunale: il 27 novembre del 2022, mi hanno tolto la bambina e l'hanno portata in una casa famiglia a Roma”.
E' iniziato così un altro, drammatico capitolo, nella vita di A.: un capitolo che ancora deve chiudersi, in cui lei e la bambina sono separate. Lei però ha reagito, questa volta: non si è lasciata andare, ha tirato fuori quella forza che in tanti anni di violenze subite non aveva saputo trovare: “Con l'aiuto dell'assistente sociale, che era dalla mia parte, mi sono trasferita a Tivoli e ho iniziato a frequentare un corso per diventare Oss, presso l'istituto Meschini di Roma. E' iniziato un periodo fondamentale, ma durissimo: partivo presto per seguire il corso, andavo a trovare la bimba tutte le volte che potevo e intanto lavoravo, per mettere da parte qualche soldo. Ho faticato tanto, ma mi sono diplomata con il massimo dei voti e ho trovato subito lavoro: un lavoro vero, con un contratto regolare, in una clinica di Guidonia. Intanto, sto ricevendo tutte valutazioni positive e so che riavrò la mia bambina: l'assistente sociale, il curatore e la casa famiglia hanno chiesto il riavvicinamento e il rientro a casa. Il 29 novembre ci sarà l'udienza al Tribunale: non posso pensare che ci sarà anche lui, il padre della bimba, lì a sentire quello che dico, a sapere dove vivo e cosa faccio. Dovrò parlare di me, della bimba, davanti a lui: questo mi sembra assurdo e mi crea un grande malessere”.
Nei giorni in cui tanto si parla di violenza sulle donne, il racconto di A. è una doccia di gelida realtà: “Lui è libero e in tutto questo stiamo pagando solo io e la bimba. So di aver rischiato tanto: è stata la mia bimba a salvarmi, perché proteggendo lei, ho protetto anche me stessa. Altrimenti, non sarei stata capace di allontanarmi e chissà cosa sarebbe successo. Quando vedo quello che accade, quando sento le notizie su violenze e femminicidi, penso che le leggi debbano essere più dure e i processi più veloci. Io alla fine ho denunciato, ho chiesto aiuto: è questo che bisogna fare, allontanarsi da chi ti fa male, mai da chi ti vuole bene. Però bisogna essere aiutate, da sole non ci si riesce, non ci si rende conto: io non mi sono mai sentita davvero protetta, lui poteva venire quando voleva e io avevo paura. Ora sto ripartendo: il corso che ho seguito è stato la svolta, il punto di ripartenza fondamentale. Mi ha assicurato un lavoro che mi piace e che mi dà stabilità. Ora aspetto solo di riavere la mia bimba con me”.