Cronache

La tentazione, la bella, la grazia, il ragno. Di Armando Verdiglione

Un critico fantastico è un saggio di Luigi Pirandello del 1905, che ha un esordio da lui ripreso in una conferenza tenuta a Venezia nel luglio 1922 e ripreso ulteriormente nella conferenza tenuta il 12 maggio 1934, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della “Stampa” a Torino. L’articolo è uscito il giorno dopo, il 13 maggio.

Un Tale entra in un negozio di occhiali e chiede al negoziante gli occhiali per leggere. Il negoziante gli fornisce vari occhiali. Il Tale prova un paio di occhiali, poi ne prova un altro, “ma, poiché nessun paio d’occhiali riusciva a far leggere il pover’uomo, l’occhialaio, alla fine spazientito, dopo aver buttato giù mezza bottega, sbuffò: ‘Ma, insomma, sapete leggere?’. Al che, meravigliato, il pover’uomo: ‘Oh, bella! E se sapessi leggere, sarei venuto da voi?’”.

La tentazione non è la messa alla prova. E non è la messa alla prova degli occhiali, dei paraocchi e dei paraorecchie della donna triforme: dunque non sono gli occhi, non sono le orecchie per ascoltare e per leggere, ma sono i paraocchi e i paraorecchie per mettere alla prova. Quali sono i paraocchi e i paraorecchie?

La tentazione non è la messa alla prova. La tentazione di Cristo, nella lingua greca, reca i significanti propri della messa alla prova, non già della tentazione. La messa alla prova è la tentazione sostanzialista e mentalista. Alla messa alla prova forse Cristo risponde con la tentazione: all’interrogazione chiusa risponde con l’interrogazione aperta. Colui che mette alla prova è Satana.

Dopo quaranta giorni e quaranta notti di digiuno nel deserto, Cristo ha fame: “avere fame” risponde all’impossibile sospensione dell’anoressia intellettuale. “Non ho fame” e “Ho freddo” sono due formulazioni, due maniere dell’anoressia. Questo brano della tentazione risulta un dialogo impossibile tra la messa alla prova, attribuita a Satana, e la tentazione, attribuita a Cristo. Il risultato è questo: non c’è più dialogo, non c’è più anfibologia tra Cristo e Cristo, tra Cristo e Satana. Matteo propone un’anfibologia fra Cristo e Satana, fra la tentazione e la messa alla prova. Se Cristo si sente, si considera, si pensa, si crede, s’immagina messo alla prova, soccombe. È un’impossibile commedia, un’impossibile tragedia, è una farsa insostenibile, inaccettabile! Per ciò, vale da apologo. Ma diviene apologo perché non c’è più dialogo, perché non c’è più anfibologia fra la tentazione di Cristo e la sua messa alla prova da parte di Satana, perché non c’è più anfibologia fra Cristo e Satana.

Satana a Cristo: Tu sei figlio di Dio? Tocca i sassi, guardali, pensali: si tramutano in pane. Cristo risponde: non è del pane che ho bisogno, non è questa la fame che ho io, non ho fame di pane. Se la tentazione è sostanzialista, allora io non ho bisogno della sostanza. Cristo fa una citazione: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Matteo, 4, 4). Qui, avviene come se si opponessero due citazioni. Il testo ebraico dice più precisamente: “di ogni cosa che esce dalla bocca del Signore”. Cristo non ha fame. Se non ha fame, la prima anfibologia è dissipata: Satana era un’impossibile allucinazione visiva.

La seconda tentazione: Satana porta Cristo, ha il potere di portare Cristo, sul pinnacolo del tempio. Qui, è la tentazione mentalista: buttati! Satana è un detrattore e un “fariseo” che cita la Bibbia, oppone a Cristo il vecchio testamento: “Sta scritto”. Non già l’atto, arbitrario, libero, ma ciò che sta scritto. “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”. Buttati: ti salverai. Buttati: non morirai. Questa seconda tentazione è indicativa: è la tentazione o è la messa alla prova con la volontà sacrificale? Perché un conto è “Tu ti salverai” e un altro conto è “Tu non morirai”. La citazione è questa: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, affinché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”. Cioè, tu non morirai, non già tu ti salverai: se mai, fa dipendere l’idea di salvezza dal fatto che Cristo non morirà. Ma non può togliersi il malinteso. Non dice: tu cadrai, il tuo piede urterà contro il sasso e gli angeli ti salveranno. No: gli angeli ti sorreggeranno, il tuo piede non urterà contro il sasso.

Questo è il malinteso. Tu non morirai. Nessuna volontà sacrificale. Nessuna vittima. Nessuna idea di salvezza. Non già l’idea di salvezza, perché tu cadrai, morirai e, poi, ti salverai. Questo brano riguarda la crocifissione, la resurrezione senza la “morte”. La resurrezione è “senza la morte”. La resurrezione è senza la “morte”. La pulsione di morte è la pulsione senza la morte e senza l’idea di morte, è la pulsione che trae alla scrittura frastica, nel registro dell’etica. E qui Cristo: “Sta scritto anche: ‘Non mettere alla prova il Signore Dio tuo’”. Cristo, parodiando, oppone una citazione alla citazione. Ma questa citazione è un’interrogazione aperta: “Non mettere alla prova il Signore Dio tuo”.

Terza tentazione: un monte altissimo. Da lì, Satana fa una dimostrazione, mostra a Cristo “tutti i regni del mondo e la loro gloria”. Satana dice a Cristo: “Tutte queste cose io ti darò”. Quindi, se Cristo dichiara: “io ho fame”, Satana gli dà tutti i regni del mondo e la loro gloria, “se, cadendo ai miei piedi, tu mi adori”, oppure “se, prostrandoti, mi adorerai”. Qui, Satana non interviene con una citazione: è una promessa diretta di felicità presente. Cristo risponde ancora con una citazione: “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”.

La tentazione non è umana. Non è una messa alla prova sotto l’idea di morte, quindi sotto l’idea di salvezza. La tentazione di Cristo da parte di Satana è una tentazione gnostica: tentazione sostanzialista e tentazione mentalista, quindi, una tentazione del soggetto. È il fantasma di padronanza. È la stessa tentazione medicolegale, la stessa tentazione giudiziaria, la stessa tentazione di chi, per comprendere, non già per capire e intendere, si munisce di paraocchi e di paraorecchie e, cioè, di postulati sorretti dal fantasma di “un unico dominus”.

La messa alla prova porta alla dimostrazione, al monstrum, alla realtà negata e rappresentata e alla convinzione. La convinzione è un corollario della gnosi, quindi è probabilista. L’habitus della tentazione gnostica è la pervicacia. Il risultato dell’azione, che è un’azione salvifica, è il nullismo. Una delle tentazioni che abbiamo appena letto è appunto la tentazione mentalista, quella che chiede di barare. La tentazione gnostica è la tentazione del principium reddendae rationis, come principio algebrico.

 

Chi estende la sentenza riassume in un paragrafo tutto ciò che emerge nel processo: testimonianze, discussione, interventi degli avvocati e, segnatamente, ciò che dice la difesa degli imputati. Se il postulato è questo, cioè che tutto è finto perché è sotto l’azione di “un unico dominus”, allora non c’è il reato fiscale.

 

 “In effetti, in sostanza” (p. 46), è ricorrente la formula “in sostanza”, “sostanziale”, “sostanzialmente”: la realtà creata è sostanziale e mentale. “In effetti, in sostanza, la Guardia di Finanza ha ricostruito un meccanismo di fatturazione assolutamente circolare e autoalimentato”, è la donna triforme, è chi estende la sentenza a scrivere così, non è la difesa. Ma, mentre riprende i significanti della difesa, la donna triforme giudicante espone la sua realtà, non quella che ha formulato la difesa. E nemmeno quella che hanno formulato i documenti, gl’interrogatori, gl’imputati, i testimoni.

La Guardia di Finanza ha ricostruito l’Uroboro, il “meccanismo” stregonesco. L’Uroboro è circolare e si autoalimenta: divora la propria coda, si alimenta con la propria coda. Circola. Soltanto con l’Uroboro il punto di arrivo coincide con il punto di partenza. Questo meccanismo è “in essere”, non in atto. “Ciò che è in essere” è nella realtà sostanziale e mentale, la realtà creata e rappresentata dalla donna triforme giudicante, che ricalca, rafforza e aggrava le formule della donna triforme accusante, che, a sua volta, ricalca, rafforza e aggrava le formule della Guardia di Finanza.

Il “meccanismo” rientra nel sistema e nel suo postulato: il meccanismo della fatturazione, il meccanismo dei flussi, il meccanismo delle cessioni, il meccanismo dei lavori, il meccanismo dei servizi. Ogni meccanismo è circolare e autoalimentantesi, perché il sistema è circolare e autoalimentantesi. Costituisce l’aggiornamento dell’antropologia criminale che da Cesare Lombroso giunge al suo impiego massiccio nei regimi totalitari e nei regimi giudiziari.

 “In effetti, in sostanza, la Guardia di Finanza ha ricostruito un meccanismo di fatturazione assolutamente circolare e autoalimentato, in essere fra soggetti che la stessa accusa assume – e l’istruttoria dibattimentale ha provato – essere del tutto formali”. Basta dire questo e l’istruttoria dibattimentale, una volta negata, diviene un postulato, che contiene la negazione. L’istruttoria dibattimentale non ha provato affatto! Le società non sono “formali”, nel senso di “fittizie”! Per il Tribunale, le società sono o formali o sostanziali. Ma le società non sono né formali né sostanziali, sono società effettive. Ciascuna società è effettiva: ha un suo statuto, un suo business, ha i suoi dispositivi, e paga (mentre le tre donne giudici scrivono che non paga nessuna tassa), anno per anno, le tasse. Abbiamo le ricevute tratte dal cassetto fiscale, per ciascuna delle ventidue società, dei pagamenti effettuati con F24 a Equitalia. Sono pagamenti fatti durante l’anno, man mano che c’erano le scadenze. L’importo globale pagato dalle società dal 2004 al 2009 è di euro 3.128.638,61. Non sono “compensazioni”! Questo prova, primo, che venivano pagate le tasse; secondo, che le società erano effettive; terzo, che avevano dipendenti, avevano costi, c’erano contributi da pagare, che sono stati pagati fino al momento in cui sono intervenute le conseguenze più gravi dalla calata dei trecento marescialli.

“[…] soggetti che la stessa accusa assume – e l’istruttoria dibattimentale ha provato – essere del tutto formali”. Solo nella replica finale l’accusatrice pubblica è arrivata a dire che non importavano le operazioni, non importavano le fatture, e che, in realtà, la falsità e la fittizietà erano delle società. I due marescialli non avevano mai detto questo. Uno dei marescialli aveva detto che solo un’associazione, Le Chiffre de la Parole, non esisteva, in quanto aveva un collegamento con me. In un documento di questa associazione, il rappresentante legale dell’associazione fa una delega a me per la firma di un atto notarile, perché non poteva recarsi dal notaio, a causa di un impedimento. Ma avere una delega di questo tipo non significa essere il rappresentante legale di quell’associazione, né significa che quell’associazione, a causa di tale delega, non esista o che io ne sia il rappresentante legale. Il maresciallo soltanto di questa associazione dice che non esiste. Ma adesso le tre donne giudici scrivono che le associazioni svizzere forse esistono e che si sono prestate per questo meccanismo, sono entrate nell’Uroboro.

L’istruttoria dibattimentale non ha provato che le società non sono effettive. Non avrebbe potuto provarlo. Non ha provato che le operazioni non sono effettive. Non avrebbe potuto provarlo. Neppure che le fatture non sono effettive: non hanno neanche analizzato le fatture! In un suo documento, l’Avvocato generale della Corte Europea scrive che le fatture, anche generiche, sono fatture. Bisogna indagare se a queste fatture corrisponda un business e se i flussi si rapportino con queste fatture. La Guardia di Finanza ha lasciato nelle sedi tutti i documenti bancari, non li ha sequestrati, non ha compiuto nessuna indagine, né in banca né attraverso le contabili dei versamenti, dei prelievi, dei bonifici, né attraverso le matrici degli assegni. Indagare sulla rispondenza dei flussi, delle fatture e del business avrebbe comportato, per la Guardia di Finanza, la verifica fiscale, che non ha mai fatto! Non avendo fatto la verifica fiscale, sono andati oltre, per diventare polizia giudiziaria, basandosi esclusivamente sulla presunzione. Mentre la polizia tributaria deve compiere la verifica, per valutare se questa presunzione regga oppure no, la presunzione della polizia giudiziaria si basa esclusivamente su quello che viene chiamato l’“indiziario”, che risulta la sintomatologia, appannaggio della semiologia criminale.

I valori patrimoniali, i valori del fatturato, i valori dei bilanci, i valori del capitale, i valori dei flussi, i valori dell’operatività, i valori delle opere d’arte, i valori degli immobili, i valori dei lavori di restauro, i valori dei servizi sono trattati tutti come apparenti, fittizi, falsi, gonfiati, disvalori, o valori annullati e nulli, chiamati questi “valori reali”.

Un’opera d’arte è venduta a una società da chi ne è proprietario. Questi cede il suo credito al socio della stessa società. Il socio rinuncia al credito trasformandolo in conto aumento di capitale. La società acquisisce un bene strumentale alla sua redditività e lo patrimonializza.

Tutta la rappresentazione “fenomenale” è prodotta da “meccanismi” creati e comandati da “un unico dominus”. Tutto è postulato come artificio patologico, come psychopathia criminalis, a fronte di un’ideologia naturalista. I “valori reali” sono i valori ideali, fantasmatici, inseguiti dalla superstizione propria della donna triforme giudicante.

 “In effetti, in sostanza, […]”. È in effetti o è in sostanza? Perché ciò che è in effetti non è in sostanza, non è sostanziale. La sostanza è ciò che sta sotto. Quindi, non è la realtà intellettuale che importa, con la sua dimensione di sembianza, con la sua dimensione di linguaggio, con la sua dimensione di materia, ma importa ciò che sta sotto. Per cui, tutto ciò che sta sopra è fittizio. Ciò che sta sotto, sotto la realtà, quello sì, quella è un’altra realtà, è la realtà creata dal postulato di ciò che sta sotto, di ciò che giace sotto. La donna triforme si ritualizza fra l’incubo e il succubo.

Nella sentenza spazia una bulimia di questo Uroboro: si alimenta, si gonfia.

“In effetti, in sostanza, la Guardia di Finanza ha ricostruito un meccanismo di fatturazione assolutamente circolare e autoalimentato, in essere fra soggetti che la stessa accusa assume – e l’istruttoria dibattimentale ha provato – essere del tutto formali, di fatto inesistenti sul piano imprenditoriale”. Siamo dinanzi a tre donne esperte, che hanno occhiali speciali per mettere a nudo e, quindi, comprendere dove c’è o non c’è il business. In particolare, il business che esse riconoscono è quello del muratore o dell’imbianchino o dell’affittacamere o del cuoco o del cameriere. Un business fatto senza cervello, senza intellettualità. “[…] e, in definitiva, un meccanismo di fatturazione in essere fra soggetti che la stessa accusa assume essere […]”. Ecco la serie: “in effetti”, “in sostanza”, “in essere”, “di fatto”, “in definitiva”. “In definitiva”: nessuna sentenza è definitiva. Tantomeno questa.

“[…] in definitiva, delle mere scatole vuote”. Qui si manifesta in pieno la competenza del tribunale, la competenza della donna triforme. La donna triforme giudicante rettifica la donna triforme accusante. Infatti, la donna triforme accusante parlava soltanto del computer, che, come il vaso di Pandora, contiene il probabile e il verosimile, ossia i mali. Ma, qui arrivano “delle mere scatole vuote”. Questo tribunale è competente in materia di scatole. È il tribunale delle scatole. Per ciò, che cosa trova nel computer? Scatole vuote, mentre è chiaro che la donna triforme preferisce scatole piene! Scatole vuote, perché “costituite strumentalmente per finalità illecite”. Questo giudizio passa attraverso gli occhiali. Gli occhiali della donna triforme sono paraocchi o paraorecchie, con cui non legge, non intende, non ha bisogno di udire, di capire, non ha bisogno di leggere.

“Ciò nonostante, la Guardia di Finanza ha considerato – in capo a ciascun soggetto – gli importi di cui alle fatture attive emesse come ricavo/reddito imponibile ai fini delle imposte dirette”. La Guardia di Finanza ha considerato la stessa fattura valida, imponibile, per chi la emette, e non deducibile, per chi la riceve. “[…] Da qui la determinazione di valori reddituali enormi in capo a ciascun soggetto giuridico [società] considerato (correttamente ritenuto autonomo”, chi estende la sentenza giudica che cosa è o non è corretto, se le scatole sono piene o vuote, “(correttamente ritenuto autonomo e singolo contribuente, non risultando rapporti formali di partecipazione societaria reciproca fra i diversi soggetti giuridici attenzionati)”. La Guardia di Finanza “attenziona” i soggetti!

Questo è un gruppo culturale, un gruppo societario. Gli enti, gli associati, le società stanno nel Movimento cifrematico internazionale e, secondo la direttiva 2006/112/CE (art. 11), rispetto al fisco, sono un gruppo. Nella sua deposizione, il consulente avvocato Carlo Cortinovis indica appunto che è un gruppo rispetto a un unico interlocutore, il fisco, e che, se tutto fosse stato finto, l’erario non avrebbe perso nulla. Non c’è danno per l’erario. Ma, qui, arriva la svolta della sentenza: i marescialli e lo stesso Pubblico ministero avevano sorvolato sul reddito e sull’imponibile, quindi sull’Ires, e avevano focalizzato la loro attenzione sull’Iva. Non avevano detto qualcosa che qui, invece, viene detto in modo chiaro: “Sennonché. Se è vera – come è vera – la premessa, ossia che tutti questi soggetti non erano operativi”, prima aveva detto “inesistenti sul piano imprenditoriale”, “si deve concludere necessariamente per la sostanziale insussistenza di qualsiasi attività di impresa reale, come tale capace di produrre e generare redditi effettivi”, quindi, società fittizie, nessuna attività di impresa, nessun reddito, “che costituiscono unico legittimo presupposto impositivo ai fini delle imposte dirette (capacità contributiva, art. 53 Cost.)”. In assenza di reddito, non c’è imponibile: lo sostiene la donna triforme! Il presupposto dell’imponibile è la capacità contributiva. Ma, qui, non c’è capacità contributiva, perché non c’è reddito, e non c’è reddito perché non c’è attività di impresa, e non c’è attività di impresa perché la società è fittizia. E la società è fittizia, perché c’è “un unico dominus”. Villa San Carlo Borromeo è fittizia. Numerario srl, che ha quindici dipendenti, ragionieri, commercialisti, e che ha solo questa attività (gestire la contabilità di diverse società e associazioni) è fittizia. Però, paga i dipendenti e paga i contributi per ciascuno dei dipendenti! Così la Cooperativa Spirali/Vel, che gestisce l’hotel e il ristorante, paga i dipendenti, paga i contributi, paga gli F24, e ha diverse sedi: è fittizia. Ancora, la Cooperativa sociale Sanitas atque Salus, con numerosi dipendenti, una cooperativa di lavoro. Il curatore non sa nemmeno che cosa sia una cooperativa di lavoro, soggetta a controllo annuale da parte dalla Lega delle cooperative: anche per lui, è fittizia. Anche i suoi dipendenti sono fittiziamente assunti.

“Dal momento che la convulsa e frenetica attività di fatturazione si è sviluppata fra soggetti che sono tutti meramente formali […]”. “Convulsa e frenetica”: psychopathia criminalis. La nuova malattia: la dissidenza, i servizi intellettuali, il Brainworking, l’Artbanking, le opere d’arte, le attività culturali, i libri, la ricerca scientifica, la cifrematica, i congressi. Questa “attività di fatturazione” non sarebbe “convulsa e frenetica”, se i “soggetti” non fossero “tutti meramente formali”. E perché “formali”? Sta nella premessa, in tutta la prima parte dell’esposizione: sono formali, perché c’è “un unico dominus”. Senza “un unico dominus”, senza l’idea di padronanza, non sarebbero formali. Ma l’idea di padronanza appartiene alla donna triforme, a chi mette alla prova! “[…] e non vi era, quindi, un terminale della catena (utilizzatore finale)”, anche nel primo processo c’era la catena, che, dicevamo, non era la chaîne signifiante di Jacques Lacan, “che fosse soggetto economico effettivo e operativo, interessato ad usare fatture per sé passive, emesse da altri, al fine di abbattere il proprio effettivo reddito imponibile”, non c’era, quindi, chi potesse utilizzare tutte queste fatture per pagare meno tasse!, “non può configurarsi in chi ha emesso le fatture in contestazione la specifica finalità di consentire a terzi l’evasione dalle dovute imposte dirette e, in chi le ha utilizzate, la specifica finalità di evasione”.

Allora, rispetto al reddito, non ha evaso chi ha emesso la fattura e non ha evaso chi l’ha ricevuta: questo lo dicono le tre signore giudici! Ma la donna triforme giudicante compie un travestimento. “[…] rispetto a propri effettivi obblighi tributari sempre correlati alle imposte dirette. E questo per la semplice ragione che, nella sostanza, non esiste un reddito reale da tassare. Ad analoghe conclusioni peraltro sembra giunta la stessa Agenzia delle Entrate (per quanto riferito dalle difese in ordine ad ipotesi transattive in discussione sul piano amministrativo)”. Infatti, il presunto accordo con l’Agenzia era in questi termini: pur in assenza di reddito, veniva data una sanzione, poiché, comunque, c’era stata tutta quella farsa. Non incassiamo sul reddito, non incassiamo l’Iva, dobbiamo, comunque, incassare: questa era la base dell’accordo così come è stato riferito a me. Solo che non era stato scritto, in quanto l’Agenzia avrebbe voluto prima il versamento, e il nostro interlocutore, l’imprenditore, chiedeva, invece, l’accordo prima del versamento. E ciò avveniva nei mesi di maggio e giugno 2014.

“[…] tenendo conto dell’art. 8 comma 2 del D.L. 02.03.2012 n. 16, laddove si prevede che in caso di emissione/utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti non si debba tenere conto ai fini della determinazione del reddito imponibile dei ricavi da esse risultanti; salvo applicare, in capo al soggetto emittente, una sanzione compresa fra il 25% e il 50% del volume di fatturato inesistente creato”. La norma prevede una percentuale sui costi, non sul volume di fatturato. Qui, confondono i costi con il fatturato.

“Peraltro, l’analisi del consulente di parte, ha dimostrato come, rideterminando l’imponibile di ciascuno dei soggetti coinvolti dall’anno 2004 all’anno 2009, al netto delle fatture contestate scambiate con altri soggetti attenzionati dagli operanti [la Guardia di Finanza] sia dal punto di vista attivo sia dal punto di vista passivo, il risultato è sempre negativo; anche con riferimento ai soggetti che invece, contabilizzando tutte le fatture contestate, hanno dichiarato modesti utili e, quindi, un se pur minimo reddito positivo”.

Ma ecco la svolta. Se la società è fittizia, se non c’è attività d’impresa, allora non c’è reddito, quindi non c’è imponibile e non c’è tassa. Io non posso pagare l’Iva, per esempio, su una cravatta che non ho comprato. Non ho usufruito, non ho goduto, non ho consumato – dicono i fiscalisti – questo bene: se consumo, pago l’Iva; se non consumo, non pago l’Iva. Consumare per pagare. Il consumo e l’Iva sono strettamente correlati. Se non c’è stato l’acquisto – perché non ci sono stati i servizi intellettuali, non c’è stata la vendita delle opere d’arte, non ci sono i lavori di restauro della Villa – allora non c’è nemmeno l’Iva. Sicché l’art. 21, comma 7, D.P.R. 633/1972, qui non sta in piedi, perché vale dove c’è attività d’impresa e dove, per esempio, una fattura non viene registrata da chi la emette e viene consentito a chi la riceve di detrarla, quindi, è una fattura di favore. Oppure, io ho la possibilità di emettere una fattura e consento a un altro di evadere: anche in questo caso, c’è un dispositivo di evasione, per chi la emette e per chi la riceve. È questo che sta sotto, secondo il giudice, nel nostro caso? No. Le tre donne giudici dichiarano qui che non c’è il reato fiscale. Riconoscono che, se non c’è reddito, non c’è imponibile e, quindi, che non c’è danno per l’erario. Nemmeno rispetto all’Iva. Il fisco dice: tu ti godi questa cravatta? Devi riconoscermi il 22%. Tu non hai goduto, non hai utilizzato questa cravatta, non l’hai neanche comprata? Io voglio, comunque, il 22%, dice la donna triforme, lo voglio, lo voglio, lo voglio! La donna triforme lo vuole. Ha le scatole da riempire e, quindi, lo vuole.

“Non può invece giungersi ad analoghe conclusioni, e quindi accogliere gli argomenti delle difese, con riferimento all’IVA. Se è vero infatti che ai fini IVA l’effetto di due fatture reciproche speculari - vere o false che siano - è sempre nullo (saldo zero, per effetto del principio della cosiddetta neutralità dell’IVA), è altrettanto vero che l’ipotesi che qui interessa è oggetto di una specifica e chiarissima disposizione normativa: l’art. 21 DPR 633/1972”.

L’articolo 21, comma 7, non c’entra niente. Abbiamo il paraocchi, la lente. La lente è il codice tributario o il codice penale, assunti per analogia, per potere annientare e distruggere, condannare.

“La disposizione normativa citata, quindi, modifica il fisiologico regime di ‘neutralità’ dell’IVA vigente in situazioni normali”. La donna triforme giudicante si mostra esperta di fisiologia. E di patologia. Infatti: “[…] proprio con riferimento all’ipotesi patologica di emissione di fatture per operazioni inesistenti”. C’è la patologia, scrive la donna triforme giudicante, perché, comunque, ci sono operazioni inesistenti. Le società sono inesistenti, quindi non c’è reddito, non c’è imponibile né Iva, ma sono inesistenti: c’è la patologia e, quindi, colpiamo la patologia! Facciamo pagare l’Iva senza tenere conto che la fattura è stata ricevuta e senza tenere conto del principio di neutralità tra costi e ricavi. Gli elementi sono perfetti, ci consentono di dire che c’è la patologia, e, quindi, condanniamo.

“A fronte di un dato normativo tributario letteralmente inequivocabile”, in questo testo, sono assenti il simbolo, la lettera e la cifra, “disquisire se anziché trattarsi di un obbligo collegato a una imposta effettivamente dovuta […]”. Quindi non è importante discutere se si tratti di un obbligo collegato a un’imposta effettivamente dovuta? Trascuriamo questo? Non c’interessa se sia dovuta o non dovuta? Non c’interessa se ci sia o non ci sia danno per l’erario? Diciamo che c’è comunque! Decretiamo, sanciamo: come il principio di non contraddizione secondo Aristotele. Sanciamo che è così. Benché la donna triforme non sia Aristotele.

“A fronte di un dato normativo tributario letteralmente inequivocabile, disquisire se anziché trattarsi di un obbligo collegato a una imposta effettivamente dovuta si tratti piuttosto di una norma a valenza sostanzialmente sanzionatoria”, ma allora, se si tratta di una sanzione, non può riguardare il processo penale! Lo riguarda se c’è un danno per l’erario e se questo danno è voluto!, “appare francamente”, questo “francamente” è la necropoli, “una pura speculazione intellettuale”! Discutere se si tratti di un reato penale o di una sanzione tributaria, discutere se ci sia danno per l’erario oppure no: tutto questo è una pura speculazione intellettuale, “come tale irrilevante in questa sede”. La donna triforme ama le scatole piene, non ama la speculazione intellettuale! Nel primo processo parlavano di scatole cinesi, qui parlano di scatole vuote: c’è un interesse del tribunale per le scatole, non più cinesi, nel frattempo, ma vuote.

La speculazione non è la ricerca dell’avvenire sotto l’idea dello specchio come idea che agisce. Quella della donna triforme è speculazione, sì, ma ideologica. La speculazione intellettuale è il pensiero sintattico e il dispositivo commerciale. Senza specularità.

“[…] una pura speculazione intellettuale; come tale irrilevante in questa sede”. In quale sede si trova questa donna triforme? È la sede in cui la Guardia di Finanza ha potuto dire che erano irrilevanti i documenti e le descrizioni sull’effettività delle fatture, presentati in quantità adeguata, senza averli guardati. È la sede in cui è stato considerato irrilevante il testo consegnato il 17 dicembre 2015, dove ciascuna obiezione della requisitoria scritta e della requisitoria orale veniva contrastata in modo preciso e in cui venivano presentati documenti essenziali. È la sede in cui hanno potuto dire che era irrilevante che ci fosse un apporto intellettuale, organizzativo, di studio, di ricerca, d’indagine, di coordinamento, di organizzazione, al restauro della Villa: e che rilevante era soltanto l’opera dell’imbianchino e del muratore. Chiamate un imbianchino a restaurare un affresco! La fattura dell’imbianchino è tollerata, quella del restauratore, quella dello specialista, no.

“Sulla base della normativa fiscale e tributaria oggi in vigore in materia di IVA (DPR 633/1972) [ancora l’art. 21, comma 7!] quindi non può che concludersi nel senso che, con riferimento alla emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti, da parte di un soggetto IVA a carico di un altro soggetto munito di partita IVA, il trattamento fiscale dell’imposta indiretta preveda come effetto il sorgere del solo debito tributario a titolo di IVA in capo al soggetto emittente, e non il correlativo sorgere di un credito IVA in capo al destinatario della fattura”.

Se i servizi sono effettivi, se i negozi sono effettivi, se la fattura è effettiva, allora c’è il principio di neutralità tra costi e ricavi: le tasse sono state pagate, tutto è regolare. Se diciamo che non è così, allora non c’è reddito, quindi non c’è imponibile e non c’è nessun danno per l’erario, neppure per quanto riguarda l’Iva. La sentenza cita a vanvera la Cassazione, una citazione inopportuna, come ha notato Paolo Duranti. Cita una norma, che è valida nel caso in cui ci sia attività d’impresa. E la applica. Se c’è attività d’impresa c’è l’Iva. Se non c’è attività d’impresa non c’è l’Iva, né per chi emette fattura né per chi la riceve. L’articolo 21, comma 7, esige l’attività d’impresa.

Ci sono sentenze successive, in particolare la sentenza della Cassazione del 27 maggio 2015 n. 10939, presentata da noi il 6 novembre 2015 e il 17 dicembre 2015, dove l’Agenzia delle Entrate, avendo perso in Commissione, aveva fatto ricorso. La Cassazione ha risposto: no, non è possibile fare pagare l’Iva a chi ha emesso la fattura se non si consente di detrarre l’Iva a chi la riceve. Se l’Iva non viene detratta, non può esigersi il pagamento dell’Iva da chi ha emesso la fattura. Altrimenti, sarebbe una duplicazione d’imposta, un’imposta che viene pagata due volte. Si tratterebbe di un illecito arricchimento da parte del fisco. Nel nostro caso ci troviamo dinanzi alla richiesta, da parte dell’Agenzia delle Entrate, di pagare 1.263.866.002,00 di euro per tutte le società: lo stato si arricchirebbe, indebitamente, di un miliardo e duecento ottanta milioni. Infatti, se la fattura è valida per chi la emette e per chi la riceve, allora è stata già pagata; se non è valida, allora non è da pagare.

“È allora evidente come, nel caso in esame, si sia al di fuori del perimetro tracciato dalla giurisprudenza comunitaria ai fini del riconoscimento del diritto alla detrazione dell’IVA relativa a fatture per operazioni inesistenti, sia perché nel caso in esame siamo in presenza di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti sia perché è evidente come tutti i soggetti, unitariamente gestiti, fossero perfettamente consapevoli della voluta operazione frodatoria”.

Quindi, anche se non c’è reddito, l’Iva è comunque dovuta; anche se le fatture sono state contabilizzate in modo preciso e messe nel bilancio, anche se i bilanci sono veritieri, perché rispecchiano le fatture, quest’Iva è dovuta perché lo diciamo noi, lo stabiliamo noi, lo sanciamo noi. Hanno voluto provare? Non c’è nessuna prova. Se il fisco non ha avuto nessun danno, se l’evasione non c’è, dove sta la frode? L’Uroboro è rappresentato dalla donna triforme giudicante. Rappresentato con quella pervicacia che è circolare.

“Peraltro la documentazione rinvenuta e le dichiarazioni [del noto ragioniere] sopra esaminate dimostrano” (il postulato, sorretto dal fantasma, deve dimostrare se stesso) “come ci fosse una maniacale attenzione” la donna triforme giudicante deve dimostrare la psychopathia criminalis. Prima, era “frenetica” e “spasmodica”, qui è “maniacale”: non è una sentenza, è una cartella psichiatrica di regime e di casta. “[…] dimostrano come ci fosse una maniacale attenzione nella individuazione dei soggetti che dovevano figurare come emittenti e utilizzatori delle diverse fatture […]”. “È pertanto certamente […]”: che bisogno ci sarebbe di dire “è indiscutibile”, “è incontestabile”, “è inconfutabile”, “è evidente”, “certamente”, se si trattasse di cose precise, di prove? Con la prova non c’è bisogno che si dica “è indiscutibile, è inconfutabile”: questo rientra nell’ordine della rappresentazione, della dimostrazione, del probabile, non già della prova. È dell’ordine della convinzione, che qui viene chiamata, sempre, convincimento. Discrezionalità assoluta per il libero convincimento!

“È pertanto certamente sussistente, nell’ambito del vorticoso giro di fatturazione analizzato […]”. Ma che analizzato? Non ha analizzato nulla! Un tribunale penale deve fornire le prove dell’accusa, non può soltanto presumere. Non può soltanto formulare un postulato, sulla base di un fantasma. Non c’è neanche l’ombra, qui, dell’analisi. Qui è la sintesi della sintesi della sintesi. “È pertanto certamente sussistente, nell’ambito del vorticoso giro di fatturazione analizzato sia la specifica finalità dei soggetti emittenti di consentire l’evasione IVA in capo al destinatario del documento fiscale”: ma, se ha appena detto che non c’è reddito, che cosa deve consentire? “[…] sia la specifica finalità di evasione dell’IVA in ogni caso dovuta (anche per fatture per operazioni inesistenti) da parte del soggetto utilizzatore”. Non è una conclusione, è la formulazione del postulato: viene postulato che ci sia stato danno per l’erario, che ci sia stata evasione. Così, viene praticata la duplicazione d’imposta.

 

Prendiamo il capitolo delle banche. La donna triforme giudicante parla di flussi, ma non di flussi bancari. Parla di “movimentazione”. Come se ci fosse una “movimentazione” fatta apposta per dimostrare i flussi, per dimostrare il business. Fino al punto in cui si prelevino soldi da un conto corrente, per creare uno scoperto, e, poi, si versi un assegno per coprire. Un’attività gigantesca fatta per “dimostrare”! Ma come potrebbero le banche, per dare un mutuo, basarsi su queste operazioni di sportello?

E, poi, la questione dello sconfinamento, cioè della differenza tra saldo liquido e saldo contabile – stando sempre nei termini del fido – è sorta sopra tutto dopo la calata dei trecento marescialli. La prima calata, il 18 novembre 2008, era stata di una cinquantina di marescialli; la seconda calata, il 24 marzo 2009, di trecento. Sono seguiti quattro mesi di intercettazioni telefoniche: in quei mesi, la Guardia di finanza aveva già fatto sentire le conseguenze della sua azione annientatrice e distruttiva in tutte le banche. Versare un assegno in una banca crea una differenza tra saldo liquido e saldo contabile, che, però, viene tollerata dalle banche: è una prassi aziendale. Ma, in quel momento, le banche erano particolarmente critiche, per via dell’assalto intervenuto.

Una banca ha i suoi analisti interni, ha un comitato interno di esperti che esamina la documentazione. Consideriamo che esamini un nostro bilancio di quell’epoca, dove c’è, sì, un fatturato, ma siamo ancora nella fase in cui si stanno costituendo gli asset delle ventidue società e, quindi, non c’è ancora un utile netto considerevole. Un utile di cinque-diecimila euro non può interessare la banca. La banca non può concedere un mutuo sulla base del fatturato. Può concederlo sulla base di altri parametri.

Le banche, per dare un mutuo, si lasciano ingannare da un imprenditore intellettuale? Le tre donne giudici mescolano le carte da loro stesse create, al servizio di un finalismo pantoclastico e distruttivo.

Ciascuna banca ha fatto la sua valutazione. Ciascuna banca ha concesso il mutuo sulla base di una perizia.

MPS Capital Services eroga a Villa San Carlo Borromeo srl un mutuo di 7 milioni di euro nel mese di febbraio 2007, sulla base di una perizia del 31 luglio 2006 commissionata alla società REAG, che dà un “valore commerciale”, nel caso in cui l’immobile sia venduto all’asta, di euro 71,4 milioni. Valore di garanzia, quindi. Non già valore di mercato.

Da luglio 2006 a novembre 2008 i lavori di restauro compiuti sono grandiosi. Vengono recuperati altri 6000 mq a fronte dei 14000 mq dell’intero fabbricato. Due enti, Politecnico e Atis Real, per conto di due banche, danno nel 2008 valori di mercato specifici e differenti dai “valori di garanzia” dati dalle banche precedentemente.

L’aumento del valore di mercato del complesso immobiliare Villa San Carlo Borromeo dal 2000 al 2008 è dovuto alla quantità e alla qualità dei lavori, che hanno consentito di recuperare 14000 mq di fabbricato e dieci ettari di parco e di assicurare alla collettività un bene monumentale produttivo di qualità.

I mutui servono per i lavori di restauro. E i lavori sono stati fatti con un risultato unico in Italia. Gli affidamenti servono all’attività aziendale. I rapporti con le banche sono qualificati e di piena soddisfazione per le banche fino alle conseguenze rovinose della calata dei marescialli.

Il valore commerciale non è il valore di mercato, come crede la donna triforme giudicante, che ricalca la donna triforme accusante, bensì il valore di vendita all’asta di quel bene. È questo che interessa alla banca, e lì si sente sicura: “Male che vada, vendo il bene!”. Questa è l’ipoteca. È una garanzia reale. Quindi, se il valore stabilito da REAG è di 71,4 milioni, MPS Capital Services può erogare un mutuo di sette milioni: anche in presenza di un altro mutuo, erogato in precedenza da un’altra banca. La capienza è ampia. Il San Paolo, addirittura, compie una valutazione ristrettissima, come abbiamo già segnalato, scrivendo chiaramente: “Questo è il valore di garanzia”.

Ciascuna banca ha disposto una perizia affidata ai propri tecnici oppure commissionata a un ente esterno. Anche Banca Etruria ha fatto lo stesso. Noi ignoriamo quale perizia interna abbia fatto. Abbiamo visto negli atti le perizie delle banche, tranne per la Banca Etruria, che però ha allegato le due perizie fornite da due enti, il Politecnico di Milano (fatta per Banca Intesa) e Atis Real (fatta per BNP). Le copie di tali perizie sono allegate ai documenti presentati il 19 maggio 2015. Ma facevano parte già della documentazione ottenuta dalle banche.

Queste due perizie hanno stabilito un importo di 290 milioni di euro, con possibilità di un’ulteriore valorizzazione a lavori terminati. Banca Etruria, comunque, non aveva bisogno di un valore così elevato: dava 21 milioni, che si aggiungevano ai mutui già erogati dalle altre due banche. Ma, comunque, si sentiva garantita. Aveva i suoi analisti e i suoi tecnici. Questa sentenza è arrivata nei giorni della massima mediatizzazione del problema di Banca Etruria e, quindi, la patrona della Banca Etruria ha parlato con una certa colorazione, come se si trattasse della responsabilità dei vertici di quella banca, responsabilità che però riguardavano gli anni successivi (2011-2014), non già il 2008, quando il mutuo è stato dato. E, comunque, le obiezioni verso Banca Etruria riguardano un altro tipo di operazioni, non c’entrano niente con i mutui. Su quale base, allora, l’“induzione in errore”? E chi induce in errore, chi truffa una banca, va, poi, a pagare le rate del mutuo?

Intesa San Paolo, BNL-BNP, Banco Popolare, Banca Popolare di Spoleto, MPS avevano conti aperti con quasi tutte le società e le associazioni e con numerosi associati. Queste banche avevano da sempre un quadro preciso della nostra realtà. Anche le altre banche avevano rapporti con più enti del gruppo.

La Villa Rasini Medolago è stata oggetto di perizie: a) da parte di Atis Real, su incarico di BNP, b) da parte del Politecnico di Milano, su incarico della Banca Intesa, c) da parte dell’arch. Luca Meroni e d) da parte di Pirelli RE per Deutsche Bank. I valori di stima espressi si riferiscono sia allo stato di fatto sia allo stato risultante dopo il restauro.

Come risulta dal prospetto (all. 19) da me consegnato il 17 dicembre 2015, i due mutui concessi dalla Banca Popolare di Spoleto seguono i valori espressi nei rogiti relativi all’acquisto di 7 appartamenti confinanti con la Villa Rasini Medolago. A fronte di un importo complessivo di euro 1.350.000,00 sborsati per l’acquisto dei sette appartamenti, la Banca Popolare di Spoleto ha erogato due mutui, per complessivi euro 1.188.000,00.

Pirelli RE consegna, nell’estate del 2009, una perizia di Villa Rasini Medolago alla Deutsche Bank (v. allegato n. 13 del 19 maggio 2015). Il valore di mercato stabilito è di euro quaranta milioni. Il valore, dopo il restauro, è di 160 milioni.

I dati dei mutui sono stati riportati con gravi inesattezze, come risulta dai documenti allegati alle mie dichiarazioni spontanee del 19 maggio 2015. Alcuni mutui sono stati estinti. E degli altri le rate sono state pagate, come risulta dagli allegati n. 4 e n. 5 ai documenti consegnati da me nell’udienza del 19 maggio 2015, e dagli allegati n. 3 e n. 4 agli scritti consegnati il 6 novembre 2015 da Paolo Duranti, oltre che dagli allegati n. 17 e n. 19 contenuti nel volume da me consegnato il 17 dicembre 2015.

 

L’estensore della sentenza menziona un prestito della Regione Lombardia per i lavori della Villa San Carlo Borromeo, il Frisl, una sorta di rimborso sui lavori già eseguiti. In questo caso, vengono presentate descrizioni dei lavori e fatture, poi, però, un collaudatore regionale va sul posto e fa un confronto tra le fatture e i lavori e redige una relazione, acquisita nella documentazione della Regione, prima di accordare il prestito. Non basta: la Regione stessa manda suoi tecnici a verificare ulteriormente la corrispondenza fra i valori esposti e i lavori. Poi dà il prestito, che non è un finanziamento a fondo perduto. È un prestito. Sul primo Frisl di euro 1.857.820 sono stati restituiti euro 1.487.395. Sul secondo Frisl di euro 1.330.225 sono stati restituiti euro 266.045: chi è quel “truffatore” che si fa prestare tre milioni centottantottomila euro e poi paga le rate fino a un milione settecentocinquantatremila euro, e poi non paga più? Ma non paga più quando? Molto tempo dopo la calata dei marescialli. Altrimenti, avrebbe proseguito a pagare, fino all’estinzione. Noi non siamo stati imputati di questo reato, ma questo reato viene recuperato, nella sentenza, come se ci fosse! Nel dibattimento, non avviene nessuna discussione attorno a questo reato, non è stata formulata l’accusa, e viene recuperato come reato prescritto, scrivendo che devono tenerne conto rispetto all’associazione a delinquere!

 

L’associazione a delinquere: secondo il Tribunale c’era un primo livello, culturale, e un secondo livello, criminale. Ma dove sta – chiedevo già nella dichiarazione spontanea consegnata il 17 dicembre 2015 –, dove sta il patto di commettere reati, con un programma indeterminato, a prescindere da quali reati? Dove sta questo patto? Possiamo fare passare il patto associativo per un patto criminale? Il Tribunale fa questo! Possiamo fare passare il dispositivo fiduciario tra le persone che intervengono nell’associazione per un dispositivo criminale? Possiamo togliere il dispositivo fiduciario in un’impresa? Non si può! Non ci sarebbe più l’impresa. E il reato fiscale e il reato di truffa, ipotizzati, sono da provare, ma, se ci fossero, non indicherebbero che ci sia un’associazione a delinquere. Un’associazione a delinquere costituisce un pericolo pubblico proprio perché è un reato a sé stante, da solo: anche se non si commettono reati, già questo consortium sceleris, questo pactum sceleris bastano per configurare il reato. Ma una società è lecita, come la sentenza stessa ammette, e, quindi, non è un consortium sceleris. Il patto sta nello statuto societario. E il business riguarda cose lecite.

 

Le tre donne giudici scrivono che ciascuno svolgeva un’attività “gratuita” rispetto ai corsi regionali o rispetto ai servizi. L’atto libero, arbitrario, non è “gratuito”. Il postulato della gratuità è un postulato proprio dell’ideologia della Riforma: tutto è peccato.

L’atto è libero, arbitrario, quindi non gratuito. E la grazia, che è virtù del tempo (con il suo teorema: non c’è più peccato dell’Altro), esclude il soggetto debitore, peccatore. Per il postulato della gratuità, il debito si tramuta in credito di un soggetto presunto debitore. La grazia e l’indulgenza sono le virtù del dispensario, senza cui nessun evento come effetto.

 

Altrove scrivono che “tutti i flussi finanziari venivano meticolosamente programmati in anticipo”. Ma lo stesso maresciallo Scopacasa dice che le cosiddette “mappe” erano calendari, per ricordarsi le scadenze di volta in volta. Non erano una pianificazione. Erano per ricordare gli impegni già assunti. Il calendario è una constatazione, non una pianificazione, degli obblighi assunti.

Le tre donne giudici danno una rappresentazione squallida e grottesca: “La provvista effettiva, fatta girare da un conto all’altro e da un Istituto di credito all’altro”, così, abbiamo una provvista su un conto e la facciamo girare, facciamo una passeggiata fra i vari conti! È la stupidità fatta soggetto, “La provvista effettiva, fatta girare da un conto all’altro e da un Istituto di credito all’altro, era ricercata ossessivamente da VERDIGLIONE”, facevamo questa danza della stessa provvista fra i vari conti, “e dalle sue collaboratrici”, sta qui la questione: Verdiglione e le sue collaboratrici, “e proveniva essenzialmente da elargizioni effettuate dagli stessi collaboratori e simpatizzanti”. Quindi, i collaboratori e i simpatizzanti facevano un’elargizione e questa, poi, girava, saltellava, tutto il giorno, da un conto all’altro, da un istituto all’altro, per dimostrare alle banche la “movimentazione” e, quindi, per indurre in errore le banche! Ma guarda caso: come avremmo potuto fare così, con Banca Etruria? Banca Etruria ha erogato un mutuo, ma non c’era ancora un conto corrente: quindi, come avremmo potuto compiere questa “dimostrazione”? È stato deliberato un mutuo e, poi, è stato aperto un conto corrente per accogliere e per pagare il mutuo.

“Ossessivamente”, “ossessionante”, “frenetico”, “spasmodico”, “convulso”, “maniacale”, “abnorme”, come ha detto un genio della finanza, che si chiama maresciallo Scopacasa. “In occasione delle perquisizioni è stata rinvenuta una mole impressionante di documentazione bancaria (pacchi e pacchi [che, però, hanno lasciato lì] di matrici di assegni staccati o da staccare; libretti di assegni in bianco) del tutto abnorme”: è l’antropologia criminale di Cesare Lombroso. Le tre donne giudici non hanno letto Lombroso, non hanno letto niente, ma Lombroso è diventato il luogo comune di questa congregazione femminile, che si è trovata a giudicare in primo grado.

“Somme molto elevate”, “elevatissimi volumi”, “flussi ingenti di denaro”, valori “sempre gonfiati spropositatamente”: la donna triforme giudicante, come già la donna triforme accusante, non tollera la verticalità. Adora l’abisso in cui può specchiarsi, riflettersi, piegarsi, denudando e purificando ogni negatività.

“In occasione delle perquisizioni è stata rinvenuta una mole impressionante di documentazione bancaria (pacchi e pacchi di matrici di assegni staccati o da staccare; libretti di assegni in bianco) del tutto abnorme e non coerente con l’attività imprenditoriale della Villa San Carlo Borromeo (attività di ricezione alberghiera, ristorazione, organizzazione di meeting)”. Qui confondono, perché la ricezione alberghiera e la ristorazione sono gestite dalla Cooperativa Spirali/Vel.

“Tecniche” venivano chiamate le ricevute bancarie scambiate tra associati o soci come una forma di prestito. Erano onorate. Non avevano nessuna finalità dimostrativa secondaria.

“Che si trattasse di una movimentazione del tutto anomala è anche riscontrato dal fatto che tutti i soggetti interessati (persone fisiche e non) sono stati oggetto di segnalazione all’UIF”. Le segnalazioni delle banche indicano soltanto lo sconfinamento, come le conversazioni con i bancari riguardano lo sconfinamento e nient’altro. Anche la conversazione con Alessandro Pellegrini, che mi avverte che un Tale di Capital Services, a Firenze, crea e diffonde false notizie sul nostro conto: “Lei sa benissimo come e da qui nascono tutte le cose… È partito da Capital Services ‘sto discorso!”.

Fra le segnalazioni ce n’è una: “Segnalazione legata a fenomeno ‘Verdiglione’. Nello specifico trattasi di rapporto (Miani Osvaldo) che non è mai stato convincente, in particolare per la personalità dei cointestatari molto restii ad illustrare l’esatta natura dei loro affari”. Noi non vediamo Osvaldo Miani esattamente dal mese di settembre 1989. E, quindi, non sappiamo nulla, ma le tre donne giudici hanno una segnalazione bancaria, che cercano di agganciare a noi. Le anomalie bancarie non dimostrano affatto il postulato, ma indicano proprio l’interesse a pagare le rate e a mantenere gl’impegni bancari.

Le tre donne giudici indicano fogli con istruzioni di giri bancari: ma, chi l’ha scritto? A chi è rivolto? Si tratta di appunti? Mettono tutto in modo programmatico, tutto per dimostrare il postulato. Le anomalie non solo non dimostrano il postulato ma sono contro il postulato.

“Tutte le società e le associazioni erano eterodirette da Verdiglione”. Se erano eterodirette, non c’è l’associazione per delinquere. Faceva tutto “un unico dominus”. Addirittura, il noto ragioniere dice che discuteva tutto con Verdiglione. Tutto. Lavoravano quindici ragionieri e commercialisti: il ragioniere ha creduto di fare bene, di salvare i colleghi, perché stava per morire. Non fa il nome di nessuno e accentra tutto su se stesso. Tutto avveniva tra lui e Verdiglione. In un foglio, che viene attribuito assurdamente a me, si riassumono le fatture. Io non ho mai riassunto le fatture, tanto meno le fatture da fare.

Ancora viene più volte ripetuto l’avverbio “ossessivamente”. Poi: “situazioni […] costruite sulla carta”. “Sulla carta” e “a tavolino”, come dice l’accusatrice pubblica, hanno costruito loro.

 

Le intercettazioni non dimostrano né il postulato né il fantasma che lo regge. Il loro uso ideologico corrisponde a una sistematica opera di falsificazione, applicata con un formulario gnostico per ogni presunzione di reato. Le intercettazioni sono deformate, riassunte, convertite, significate. Tutto è gravemente appiattito e allineato sulla postulazione da polizia giudiziaria.

Una conversazione viene citata nella sintesi finale per stabilire la gravità dei reati e, quindi, della pena, come un segno decisivo: è una conversazione tra me e mio fratello Renato. Nella trascrizione della conversazione, le giudici modificano, riassumono molti passaggi. Nella conversazione, io dico che con una banca c’è un momento molto difficile che ho dovuto affrontare. “Poi parte”, loro riassumono, introducendo fattori ideologici, “una conversazione pseudofilosofica”!

Se voi leggete questa sentenza, noterete che è senza linguistica, senza sintassi, senza frase, senza pragma, senza l’altra lingua né la lingua altra, ma redatta nella lingua di legno. Abbiamo già notato la lingua di legno. Queste tre donne giudici sono in grado di stabilire quale filosofia è vera filosofia e quale è falsa! Sono esperte di filosofia! E perché “pseudofilosofica”? Perché è “sugli istanti che si succedono senza essere in successione”, come hanno riassunto? Gli istanti non si succedono! “Pseudo” è il loro riassunto! La falsificazione avviene nel loro riassunto, non nel testo! “[…] istanti che si succedono senza essere in successione e che hanno in sé”, io dico “hanno in sé”? In sé e per sé? Io? Impossibile. “[…] l’eternità e l’infinito... e poi se appartengono all’algebra o all’aritmetica... Poi aggiunge che i greci non conoscevano lo zero scoperto dagli indiani. Si diceva sifr, poi è arrivato in Europa ed è diventato zephyrum come il vento, da cui poi zero – aggiunge che ha pubblicato un libro sulla storia dello zero – (una delle sue società in effetti si chiama zefiro)”. No: Zephyros. “Poi gli parla dei suoi problemi di salute”, pseudofilosofico, anche questo, “del fatto che lavora 20 ore al giorno e che ha dovuto risolvere una questione finanziaria difficilissima con una banca intervenendo in un certo modo. Stava facendo una riunione con degli amici londinesi e la ha dovuta sospendere perché è arrivata questa telefonata urgente. Riprende a dire dei suoi appuntamenti con medici, ma aggiunge che per lui l’importante è che la battaglia finanziaria sia vinta”. Anche qui, il testo è differente. “L’impresa è immane, ma bisogna trovare una via semplice come l’aritmetica”. È riassunto così, alla carlona, raffazzonando. “Renato dice di non capire perché si affatichi tanto come un ragno che è dentro una tela e non riesce a uscirne. VERDIGLIONE sottolinea che il ragno costruisce la sua tela, è lui il costruttore e per lui tutto ha un senso”, io non dico che le cose hanno un senso, “per la produzione di libri e cultura”. Tutto il programma criminoso sta qua! Questa conversazione è un segno che Verdiglione costruisce per produrre libri e cultura. Viene portata come il segno del programma criminoso!

Tra le motivazioni della sentenza, tra le prove, viene riportata anche questa telefonata: “COSTA parla con VERDIGLIONE che è a Roma e le racconta che la presentazione di un libro di un georgiano (che hanno pubblicato) è andata molto bene”. Si trattava del presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili, non era “un georgiano” qualunque.

Le intercettazioni, per quanto parziali e frammentarie, per quanto estrapolate dal testo e dal contesto, indicano una realtà differente e lontana dalla realtà rappresentata dalla donna triforme giudicante, con i suoi riassunti grotteschi e folcloristici.

A proposito della “gratuità”. Viene annullato tutto ciò che è ritenuto gratuito, ma non è “gratuito”. L’attività è libera, non già gratuita. Per le tre donne giudici, il “gratuito” non vale niente, quello che vale è il postulato.

I corsi del FSE (Fondo sociale europeo) si sono tenuti. Gli allievi si sono formati. Erano stati selezionati dopo ripetuti annunci pubblicitari. Chi ha tenuto i corsi è stato pagato. Anche i docenti che facevano parte di un’associazione culturale percepivano il pagamento. A volte lo tenevano, a volte lo devolvevano all’associazione. La loro prestazione non era gratuita.

 

“Verdiglione poteva contare sull’appoggio di personalità autorevoli del mondo bancario e alti funzionari, con i quali cercava di avere ripetuti contatti, anche per superare criticità e lamentele, dimostrandosi peraltro disponibile a ricompensarli (le prime ipotesi investigative in questo senso non hanno tuttavia condotto ad ulteriori risultati)”. La donna triforme giudicante confonde il titolare di una società di consulenza, che istruisce e controlla una pratica prima di mandarla a una banca, con un funzionario di banca. Da qui discende la vergognosa attribuzione di un modello infernale al personaggio creato. I marescialli non hanno condotto nessuna indagine. E.G., appunto, non è funzionario della Deutsche Bank, ma è titolare di una società di consulenza.

Un passo è importante (p. 94):In secondo luogo, i contatti fra VERDIGLIONE e i vertici bancari, emersi dalle intercettazioni, i cui approfondimenti investigativi non hanno tuttavia trovato specifici riscontri, appaiono soprattutto funzionali alla risoluzione delle problematiche connesse alla operatività dei conti, una volta emersi a posteriore elementi di sospetto”.

L’operatività dei conti è gestita dai funzionari. Le intercettazioni riguardano le telefonate con i funzionari, non con quelli che la donna triforme giudicante chiama “i vertici delle banche”. E l’operatività non è stata in questione prima dell’“azione salvifica” dei marescialli.

L’unico esempio di contatti con i “vertici bancari” che portano è quello di una conversazione con il professor Roberto Ruozi, che mi indica una società di consulenza che istruisce le pratiche da presentare in una banca: invece di avere noi un ufficio, un direttore finanziario, un ragioniere e un commercialista che istruiscono la pratica, c’è una società che prepara la pratica e la porta in banca. Non lo fa gratuitamente. Io dico al professor Ruozi: questo signore vuole il 3,5%. Di solito, in questi casi sarebbe l’1%. Ruozi risponde: gli parlo io. Le tre donne giudici non capiscono, pensano che si tratti di un funzionario di banca che prende la percentuale, ma, dicono, non hanno trovato riscontri! Quindi, questi famosi contatti con i vertici della banca che avrebbero favorito i mutui, in questi termini, non sono mai esistiti. “[…] contatti funzionali alla risoluzione delle problematiche connesse alla operatività dei conti”, allora, siamo al livello del funzionario di sportello, del gestore! Non siamo a livello dei vertici, “una volta emersi a posteriore elementi di sospetto”. Le tre donne giudici, esperte di filosofia, di antropologia criminale e di patologia, sono interessate alle scatole vuote e al “posteriore”!

 

I contributi del Ministero dei beni culturali. La donna triforme giudicante introduce una falsità, ricalcata dalla creazione della donna triforme accusante, quando afferma: “Complessivamente, l’importo dei contributi ricevuti dal Ministero per gli anni 2003 e 2004 ammonta a euro 16.265.043,02” (p. 100). Ma alla pagina 98 aveva scritto gli importi erogati: euro 1.051.898,39 e euro 1.583.472,95.

I quesiti della visita tecnica e del collaudo da parte del Ministero sono i seguenti: Quali sono i lavori di restauro? Sono eseguiti a regola d’arte? Sono conformi alle autorizzazioni impartite? Qual è il valore dei lavori? I tecnici della Soprintendenza esaminano, analizzano, verificano, controllano i lavori. E danno risposta, avvalendosi della comparazione dei lavori con i parametri da loro seguiti. Il consuntivo consegnato dall’architetto vale per la descrizione dei lavori, non è assunto come riferimento dei valori.

L’architetto ha dichiarato che ha valutato i lavori effettivi. E su questo si è basato, seguendo i parametri della Camera di commercio, gli stessi ammessi dalla Soprintendenza. (Nel certificato di collaudo del 28-11-2005 del Ministero si legge: “Visto che i prezzi applicabili sono ritenuti congrui in rapporto ai costi della mano d’opera e dei materiali nel 2005 nella Provincia di Milano”). Fra l’altro, l’architetto si è reso conto che i valori dei lavori trovavano riscontro nelle fatture, che, quindi, timbrava e firmava.

Il postulato consente alla donna triforme di enunciare una falsità, che serve da fondamento di una creazione demonocriminologica: “Il valore di quei lavori è stato quantificato sulla base di fatture che prospettavano costi spropositati, gonfiati e non realmente sostenuti”. Il valore dei lavori era stabilito dai tecnici della Soprintendenza, gli unici periti riconosciuti dal Ministero e garanti.

È altrettanto falso affermare che i tecnici della Soprintendenza “si limitavano a verificare la realizzazione concreta delle opere, per così dire, in natura”. L’oggetto della loro analisi e della loro visita tecnica era proprio quello di definire il valore dei lavori.

È altrettanto falso, proprio perché i tecnici della Soprintendenza non hanno mai visto né richiesto nessuna fattura, affermare che “gli importi erogati erano quantificati in base ai costi esposti nelle fatture”.

Il giudizio sul valore dei lavori da parte della Soprintendenza è assolutamente indipendente dal consuntivo redatto dal tecnico di parte. E è insindacabile.

 

Riguardo alle pratiche con le banche, con il Ministero dei Beni culturali, con gli istituti tributari, la realtà viene negata e restituita come una realtà creata sulla base del postulato conforme al fantasma di “un unico dominus”.

La donna triforme giudicante e la donna triforme accusante hanno creato la loro realtà, la loro visione mondana, dove hanno collocato i loro concetti di rapporti con le banche, con il Ministero, il loro cerimoniale gnostico, la loro psicodrammaturgia, la loro farsa macabra.

L’ideologia della sentenza trae con sé il principio d’intolleranza verso il valore dell’arte e della cultura, del restauro di qualità, dei servizi intellettuali.

Le tre donne giudici applicano la propria impalcatura ideologica alla pratica con le banche, con il Ministero, con le istituzioni tributarie. Cancellano l’impresa intellettuale per potere dichiararla fittizia, apparente, inesistente. Danno dimostrazione di non cogliere il business di ciascuna delle società. E non lo menzionano neanche. Non leggono né documenti né descrizioni né testimonianze né interrogatori. Ignorano totalmente la casa editrice e il suo business essenziale, la sua portata strutturale e strategica nel gruppo. Per il postulato ideologico, sparisce l’impresa planetaria.

Le tre donne giudici postulano alla fine (p. 104) ciò che avevano creato all’inizio: “il contributo causale apportato all’attività associativa criminale ed, eventualmente, alla realizzazione dei singoli reati-fine loro rispettivamente contestati: oltre che la loro piena consapevolezza e volontà di partecipare al programma criminoso comune rappresentato, in ultima analisi, dalla spasmodica ricerca di denaro e risorse finanziarie attraverso modalità illecite, poi declinate nei singoli reati-fine”.

Nessuna prova del “contributo causale”. Nessuna prova dei “reati-fine”. Nessuna prova della “piena consapevolezza e volontà di partecipare al programma criminoso comune”. E come può il “programma criminoso comune” essere “rappresentato, in ultima analisi, dalla spasmodica ricerca di denaro e risorse finanziarie”? Definita “spasmodica”, la ricerca è affidata alla psychopathia criminalis. “In ultima analisi”? Ma non è avvenuta nessuna analisi. E le “modalità illecite” riguardano l’assolvimento degli impegni bancari? Oppure il restauro della Villa? Oppure la pubblicazione di libri? Oppure i congressi internazionali? Oppure i servizi intellettuali alle aziende? Oppure la libertà della parola e la sua dissidenza?