Cronache

Pr tra pubbliche relazioni e networking, che cosa c'è dietro il proliferare di premi e riconoscimenti 

di Antonio Mastrapasqua

Oggi sembra che la prerogativa – “sempre meglio che lavorare” – si sia estesa anche ai non giornalisti....

Pr tra pubbliche relazioni e networking, che cosa c'è dietro il proliferare di premi e riconoscimenti 

Negli anni Ottanta l’acronimo “pr” era stato maliziosamente tradotto con “pranzi e ricevimenti”, invece di “pubbliche relazioni”. L’organizzazione di eventi per lo più conviviali sembrava l’unico strumento di quello che oggi potrebbe essere definito “networking”.

Da qualche anno “pr” sembra invece essere traducibile con “premi e riconoscimenti”. Una scorciatoia furba che trasforma un’attività di comunicazione in un espediente per inventarsi uno stipendio senza dover lavorare.

Secondo il noto aforisma di Luigi Barzini junior “fare il giornalista è sempre meglio che lavorare”. Oggi sembra che la prerogativa – “sempre meglio che lavorare” – si sia estesa anche ai non giornalisti. Basta organizzare un premio. Premi letterari, premi culturali, premi di pittura, premi legali, premi il miglior tutto di tutti. Ogni premio ha un presidente che lo organizza, che ingaggia una giuria, che rappresenta un “pezzo di società civile”: imprese, istituzioni, fondazioni, accademici, opinion maker, manager, artisti, e pseudo.

Il meccanismo è complesso, ma facilmente riproducibile. Serve un effetto domino o, se preferite, un effetto valanga. Cioè serve che l’ideatore del premio – colui che aspira a non lavorare e crearsi una rendita – trovi il presidente giusto per la giuria, cioè il soggetto capace di riprodurre una “connection”.

Intendiamoci, il premio è spesso una articolazione consolidata delle attività editoriali di un media, tradizionale o social: si premiano gli sponsor, gli investitori pubblicitari. Normale. E se funziona il meccanismo il premio si trasforma in una macchina inclusiva, relazionale, per aprire nuovi spazi di mercato: una volta si sarebbero cercati nuovi lettori, oggi potremmo dire nuovi follower. Nuovi utenti, in senso lato.

Oggi accade il contrario: si inventa un mezzo di comunicazione – se serve – per dare corpo a un premio inventato di sana pianta con il meccanismo relazionale di cui sopra. Oppure si chiede aiuto ai media esistenti, coinvolgendoli come “media partner”. Ma il centro del premio è altrove, fuori dall’area editoriale, prodotto dall’alchimia dell’amichettismo, della consorteria, della lobby.

Niente di male, intendiamoci. Ma è un costume un po’ goffo, per il quale l’importante è premiare, non i motivi del premio o le qualità del premiato. Quando qualche anno fa mi toccava una vita pubblica più intensa mi è capitato di essere coinvolto in una premiazione organizzata da un soggetto istituzionale – non cito per carità di patria – che ebbe l’idea di premiare me, allora presidente Inps, e Andrea Monorchio, all’epoca Ragioniere generale dello Stato. Nel corso della motivazione della premiazione i nostri incarichi vennero invertiti, senza che i partecipanti – poco più che figuranti – se ne fossero accorti; così io divenni il capo della Ragioneria dello Stato e Monorchio si accontentò di presiedere l’Inps. Per una sera.

Il costume è rimasto lo stesso. Anzi, la superficialità si è persino aggravata. Gli organizzatori dei premi diventano opinionisti, ma non solo per una sera, pur non avendo altra competenza che una personale vocazione all’autoimprenditorialità. Ma c’è un ingrediente essenziale che aggiunge all’amichettismo relazionale un piccolo dubbio di legittimità. Già, perché l’aspirante organizzatore del premio ha quasi sempre bisogno di un coté istituzionale, per accendere l’effetto valanga. Il premio, quello che dura di più, quello che fattura di più, può contare sulla sponsorizzazione di un’azienda pubblica (o più di una, perché sono come grani del rosario, una segue l’altra) oltre che un patrocinio istituzionale, anche a titolo gratuito.

E qui il giocattolo divertente confina con l’opacità italiana in cui la trasparenza è solo pretesto e argomento di conversazione. Perché un’azienda pubblica, più di una azienda pubblica, si piega al pagamento di un contributo per una finzione conclamata? I privati possono sempre giustificarsi, se vedono un loro interesse economico, commerciale e relazionale. Ma il pubblico? Le aziende pubbliche? Le Istituzioni? Le amministrazioni pubbliche? Perché pagare per farsi premiare o far premiare l’amico di turno? Il perché è chiaro, l’etica un po’ meno.

 

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