Cronache
Sarah Viola: "Per i reati nati dal disagio mentale servono gli psichiatri"
L'affermata specialista spiega: "Covid e guerra hanno aumentato un disagio che si manifesta con modalità nuove. E molto preoccupanti"
Ma questo disagio profondo può essere letto dalle Forze dell’Ordine o è sempre necessario affiancare loro dei professionisti specializzati?
“Senza nulla togliere alle Forze dell’Ordine, la loro professionalità non è sufficiente, perché in merito alla psiche sono come tutte le altre persone non qualificate. E spesso chi non lavora nella psichiatria dice delle cose… folli. Ciò che per noi è scontato, per chi non si occupa di psiche non è nemmeno leggibile. E nemmeno lo si può pretendere: sarebbe come pensare che un carabiniere chiamato sulla scena dove è crollato un ponte, sapesse che è stato a causa del calcestruzzo di bassa qualità! E nemmeno lo possono capire i giudici, che spesso ci chiedono se l’accusato di un reato fosse in grado di intendere e di volere al momento dei fatti, molti anni prima! E come possiamo dirlo? Se ci fosse stata la perizia di un collega al momento giusto, allora sarebbe stato possibile. Altro problema è che lo psichiatra viene chiamato quando si vuole scagionare un colpevole: quindi la gente ci vede come chi giustifica il delinquente, anche se non è così (per avere una attenuante bisogna dimostrare che in quel momento specifico il soggetto non era in grado di intendere e di volere). Lo psichiatra serve per capire cosa è successo veramente”.
Quanto incide su questi reati la situazione di tensione che stiamo vivendo ormai da tempo, prima col Covid e poi con la guerra?
“Moltissimo. Ho riscontrato un aumento del lavoro del 30% e anche un forte aumento della gravità delle situazioni prese in carico. Sia il criminale da strada, sia il soggetto che ammazza per gelosia hanno modificato il loro modo di agire, sono diventati molto più incauti. Una volta il delinquente agiva ‘con il favore delle tenebre’. I delitti degli ultimi due anni invece sono ‘firmati’: molto spesso la gente ti ammazza alla luce del sole, non si nasconde, non scappa. Ciò è dovuto a un pensiero che rappresenta un’eredità del Covid: la convinzione che tanto ‘ormai non c’è più niente da salvare’. Per la popolazione generale infatti si parla di ‘burnout postpandemico’, mentre per questo tipo di popolazione che delinque invece si dice che c’è una dimensione angosciosa del ‘non c‘è più niente da perdere’. La pandemia ha tolto aspirazione verso il futuro, senso di progettualità e quindi anche di tutela. Dunque le condotte sono non-autotutelanti, ovvero di tipo suicidarie, parasuicidarie, con persone che non escono e non cercano un lavoro. Il senso di disperazione si traduce nell’idea di non avere un futuro”.
A fronte dell’emergere di queste nuove problematiche, lei riscontra la necessità di formare nuove professionalità?
“Assolutamente sì. Infatti nei master di criminologia oggi nascono capitoli nuovi, legati alla morfologia dei fatti-reato. Devo però aggiungere un’altra considerazione: negli ultimi anni ho visto un costante svuotamento del comparto psico-sociale di ogni tipo di risorsa. Niente strutture, niente assunzioni, carenza generale di medici e, soprattutto, di operatori del comparto psicosociale. In queste condizioni, è molto difficile fare prevenzione”.