Culture

Paolo Di Stefano racconta 'Giallo d'Avola': "Non volevo camilleggiare..."

di Antonio Prudenzano
su Twitter: @PrudenzanoAnton

Sellerio

 

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Paolo Di Stefano, inviato culturale del Corriere della Sera, ambienta il suo ultimo libro, un "legal thriller", nelle campagne di Avola, la cittadina in provincia di Siracusa in cui è nato nel 1956. "Giallo d'Avola" (Sellerio) ci riporta a metà anni '50: la mattina del 6 ottobre 1954 un pastore (Paolo Gallo) scompare. Viene trovato solo il suo cappello, e intorno alcune macchie di sangue. In carcere finiscono il fratello Salvatore, mezzadro come lui, e il nipote Sebastiano: le due famiglie, infatti, sono in pessimi rapporti. Ma due bravi avvocati difendono Salvatore e Sebastiano, entrambi analfabeti. Stando alla difesa, Paolo sarebbe volontariamento sparito, e sua moglie avrebbe inscenato un omicidio...

Di Stefano, il suo romanzo si ispira a una storia di cronaca realmente accaduta. Cosa l'ha più colpita di questo caso, tanto da spingerla a trasformarlo in un romanzo?
"Sono nato ad Avola e questa storia è circolata per decenni sulla bocca di tutti fino a diventare una specie di epopea orale che ogni avolese racconta ancora oggi a suo modo, sulla base di ricordi diretti e della trasmissione indiretta. Era una vicenda a cui pensavo da tanti anni. Quel mondo era il mondo dei miei nonni, a un certo punto nella storia compare anche il padre di mia madre. Vi avevo dedicato, sotto mentite spoglie, un capitolo di 'Tutti contenti' (2003). E’ una specie di 'Fu Mattia Pascal' dei poveracci, in pratica un romanzo già scritto: un intreccio pazzesco che solo in Sicilia poteva esistere in natura. Ho recuperato tutti gli atti processuali di quella vicenda che ha dell’incredibile, li ho studiati e l’ho raccontata a mio modo cercando la massima empatia con quei personaggi e con quella storia. E’ stato un lavoro insieme filologico e inventivo".

Paolo Di Stefano sellerio
PaoloDiStefano

Le piccole grandi storie di personaggi comuni della storia del '900 sembrano toccarla particolarmente, sia nella sua attività giornalistica sia in quella letteraria: quando è nata questa sua fascinazione?
"In realtà mi interessa lavorare sulla memoria collettiva e individuale. Nella tragedia di Marcinelle, che ho ricostruito ne 'La catastròfa' (2011), sono rimasti sepolti frammenti di memoria, di risentimenti, di rabbia, di dolore rimasti inespressi per oltre mezzo secolo: scriverla è stato un atto di giustizia dovuto a quei morti e ai loro parenti. Anche la storia dei fratelli Gallo, che occupò per settimane le prime pagine dei giornali nazionali, per l’enorme errore giudiziario che rivelò, è rimasta lì, senza nessuno che si prendesse la briga di recuperarla e ricostruirla nei suoi aspetti inquietanti. A me interessa lavorare su lacerti di cronaca che hanno potenzialità epiche: la letteratura agisce sui luoghi oscuri della psicologia umana e della storia dando loro una forma espressiva e stilistica il più possibile unica e irripetibile".

paolo di stefano rizzoli

In "Giallo d'Avola" il noir (in cui non mancano elementi grotteschi) è l'occasione per raccontare la Sicilia contadina del secondo dopoguerra... Che rapporto ha con la sua terra d'origine?
"Sono nato ad Avola, ho vissuto la mia infanzia e la mia giovinezza a Lugano, tornando in Sicilia tutte le estati con i miei genitori e i miei fratelli. Ho conosciuto quel mondo arcaico (il mio nonno paterno aveva le pecore e vendeva ricotte) in tutte le sue pieghe di violenza, di tragedia e anche nei suoi risvolti grotteschi. I miei genitori in casa, anche all’estero, parlavano il dialetto dei miei nonni. A un certo punto ho provato repulsione per quel mondo e me ne sono allontanato. Poi a poco a poco l’ho recuperato, fino a pensare, da sradicato, che era l’unico luogo che davvero mi apparteneva. Nei miei romanzi la Sicilia è sempre un’ossessione e una nostalgia, per quanto insensata. E’ una fonte inesauribile di storie inspiegabili, di contraddizioni umane e di espressività anche assurda".

Colpisce la precisione della sua lingua letteraria: per ottenere il risultato finale, quanto lavora a una frase, a un capitolo? Tende a riscrivere più e più volte?
"Scrivo e riscrivo all’inizio, provando e riprovando prima di trovare il tono giusto. Poi, una volta entrato nella musica profonda dei miei personaggi, è come se mi trovassi a mio agio con loro e sono loro che mi guidano. Per Giallo d’Avola il vero problema era individuare il dosaggio giusto tra italiano parlato e dialettalità, evitando il più possibile il format Camilleri: perché ormai in letteratura quando si dice Sicilia (e per di più in giallo) si dice Camilleri, che è diventato un modello e insieme un tranello da evitare. Non volevo camilleggiare, dunque dovevo far sì che il narratore si confondesse e insieme si distinguesse dai tanti personaggi che parlano. Non è stato facile, ma credo di esserci riuscito. Ogni parola andava pesata e resa credibile nel tessuto narrativo. Ma dopo un po’ ho capito che il meccanismo 'sonoro' funzionava per conto suo e la fatica è diventata puro piacere".

Sta già pensando al prossimo libro?
"C’è un romanzo di pura invenzione che sto scrivendo da anni. E poi un libro di storie di italiani non illustri del passato e della contemporaneità".