Culture

Giovani e cultura. Francesco Giubilei: "Serve il coraggio di cambiare"

Simone Cosimelli

L'intervista di Affaritaliani.it al giovane editore Francesco Giubilei

Francesco Giubilei quando discute di giovani e lavoro si rivolge alla sua generazione. E alla generazione che verrà. 25 anni, di Cesena, laureato in Lettere Moderne a Roma e in Cultura e Storia del Sistema Editoriale a Milano, è direttore editoriale di Historica edizioni e Giubilei Regnani editore, fondatore dei quotidiani online cultora.it, ilconservatore.com e la Libreria Cultora a Roma. Ancora: docente al Corso di Editoria dell’agenzia letteraria Herzog, editorialista per il quotidiano “La Voce di Romagna”, curatore di blog su Il Giornale e Linkiesta. E’ stato inserito nel «Catalogo dei viventi» dal Corriere della Sera. E ha pubblicato sei libri: tra i quali uno su Leo Longanesi («Il borghese conservatore, Odoya, 2015) e l’ultimo sulla «Storia del pensiero conservatore» (Giubilei Regnani, 2016). Con Affari Italiani parla del perché, nonostante tutto, con la cultura si può – e si deve – mangiare.

 

Vittime di un sistema che non funziona, questi giovani, e di una congiuntura negativa, oppure hanno anche delle colpe?

«Da un lato, c’è un sistema del mondo del lavoro che non funziona. E siamo senza dubbio nel mezzo di una congiuntura negativa. Abbiamo il 40,1% di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni. 4 su 10, cioè, non lavorano. Un dato inquietante. D’altra parte, concentrandosi sul nostro sistema universitario, c’è un problema di fondo. L’Italia ha meno laureati rispetto al resto dei Paesi europei. Per scelte d’indirizzo politico, chiaramente, si cerca di aumentare il numero degli iscritti e quindi dei laureati. Questo, però, produce uno scadimento del livello qualitativo delle università. La qualità viene sacrificata per la quantità. Sono gli effetti dell’università di massa. Effetti che rischiano di danneggiare i più meritevoli. Di compromettere un ambiente che dovrebbe basarsi sulla meritocrazia. Bisognerebbe avere il coraggio di dire, non essendo scuola dell’obbligo, che non tutti devono scegliere questo percorso. Ci sono mestieri nobilissimi (mi viene in mente, per esempio, il sarto) che non necessitano di quel titolo e, di fatto, stiamo lasciando in mano agli stranieri. Al contrario generiamo una domanda di lavoro enorme, specie con chi si laurea nelle materie umanistiche, a fronte di un’offerta molto bassa. Bisognerebbe avere il coraggio di introdurre delle soluzioni di buon senso, che in questo momento, mi rendo conto, potrebbero sembrare drastiche».

Tipo?

«Introdurre il numero chiuso in tutte le università. Con dei test trasparenti, rigorosi, oggettivi che selezionino i candidati. Uno sbarramento che favorisca chi veramente vuole studiare e specializzarsi e che, poi, si collocherebbe nel mercato del lavoro con più facilità. Chi invece non intraprendesse la carriera universitaria potrebbe indirizzarsi verso settori dove c’è richiesta ma non è necessario un certo tipo di preparazione. Come soluzione andrebbe testata, credo, declinata secondo le varie esigenze. Anche se la vedo dura in Italia. Ce ne sono anche delle altre, però: per esempio quella di dare la possibilità a un giovane che sta per iscriversi all’università di fare scelte consapevoli e ponderate. Eviteremo di convogliare grandi flussi di persone verso università per cui, in realtà, non hanno predisposizione. Io ho studiato Lettere: avevo compagni che non leggevano».

Sono proposte impopolari le tue.

«Mi rendo conto della difficoltà. Ma credo, e lo credo soprattutto in relazione a questo momento storico, che servano proposte shock, forti, nette. Che possano veramente portare a un cambiamento. I piccoli aggiustamenti non funzionano. E non solo per quanto riguarda l’università».

Ti occupi di editoria. Oggi il 60% degli italiani non legge nemmeno un libro nell’arco dell’anno. Cosa serve per incentivare la lettura? E ancora: perché un ragazzo non dovrebbe farne a meno?

«E un altro dei problemi di fondo di questo Paese. Una mancanza che parte dalla scuola. Nel momento in cui, proprio attraverso la scuola, si fa un percorso che non riesce a trasmettere la necessità della lettura per la formazione di una persona, allora si evidenzia un fallimento. La lettura dovrebbe essere una componente imprescindibile della vita di una persona. Questo non accade: anzi, passa il messaggio della lettura come un qualcosa di accessorio, superfluo. Siamo all’esempio dei Promessi Sposi di Manzoni: un capolavoro spesso spiegato male dagli insegnati, tanto da generare una sorta di repulsione verso la letteratura. I giovani, invece, dovrebbero ripartire proprio dai libri. E in questo le famiglie sono fondamentali. Specie in un mondo come quello di oggi: dove la tecnologia tende ad allontanare da quest’attività».

In più occasioni hai sostenuto che, per rilanciare il settore culturale in Italia, la strada giusta passa attraverso il sostegno dei privati. E qui sei ancora impopolare: in Italia la demonizzazione dell’investimento privato sul bene pubblico è regola. 

«Di recente è uscito un libro, «Meno stato e più società», curato dall’ex presidente del Consiglio Lamberto Dini, che contiene un mio contributo in questo senso. In Italia, il Paese dove Giulio Tremonti ha potuto dire che con la cultura non si mangia, c’è un problema di confusione tra sponsorizzazione e mecenatismo dei privati. Il mecenatismo lo abbiamo quando un imprenditore dona risorse a fondo perduto, per esempio, per un restauro. Ce lo auguriamo tutti, ma capita di rado. Poi, però, bisogna anche essere pragmatici: se un privato mette denaro, sponsorizzando, per avere un ritorno economico, e la questione viene regolamentata e definita entro certo limiti, credo sia un’opportunità. Un imprenditore che investe nella valorizzazione di un bene pubblico può avere un ritorno in termini di pubblicità, o visibilità. E’ legittimo. E’ una misura da accogliere soprattutto oggi, in una situazione di crisi in cui lo stato non può permettersi grandi operazioni di questo tipo. Si creerebbe occupazione in campo culturale, e mi sembra importante».

Con la cultura si può mangiare, insomma.

«Dobbiamo promuovere un contagio culturale. Portare più persone possibili nelle sale cinematografiche, nelle biblioteche, nei musei, agli eventi o nei luoghi turistici che il mondo ci invidia. Continuare a pensare che lo Stato debba farsi carico di tutto questo, francamente, è sbagliato. Quindi ben venga l’intervento del privato se e quando dà garanzie e accetta che si fissino linee di demarcazione su cosa è possibile fare o non fare. Che non significa mercificare il bene pubblico. Per i giovani laureati nelle materie umanistiche si aprirebbero molte possibilità».

Ecco, concludiamo su quest’aspetto. Oggi, come e perché studiare materie umanistiche?

«E’ necessario studiarle con serietà, attenzione. Ma farei lo stesso discorso per ogni corso di laurea, del resto. Perché studiarle? Perché la società necessità ancora dei valori che un percorso umanistico può fornire. E’ fondamentale riscoprire l’identità di un popolo, che passa anche e soprattutto dalla culturale in generale e della letteratura in particolare. Come dicevamo, è necessario ripensare il sistema universitario. E collegare queste conoscenze – concretamente - al mondo del lavoro».