La Terra a rischio estinzione?Dalla scienza tutte le risposte - Affaritaliani.it

Culture

La Terra a rischio estinzione?
Dalla scienza tutte le risposte

di Elisabetta Corrà
 

Il prossimo 12 settembre la Biblioteca del Congresso, presso il W. Kluge Center di Washington, ospiterà un simposio (http://www.loc.gov/today/pr/2013/13-142.html)  - aperto al pubblico e completamente gratuito - sul futuro della nostra civiltà ( Longevity of human civilization, questo il titolo in inglese). A discutere di quesiti apertissimi e non poco elettrizzanti ( La longevità della civiltà umana è messa in pericolo o accentuata dalle tecnologie che stanno plasmando il mondo? Quanta parte della natura si può ancora salvare e come gli uomini sceglieranno di salvarla? Come immaginiamo il futuro e come lo rappresentano gli scrittori di science fiction? In che misura le tecnologie stanno alterando il Pianeta, incluse quelle che possono avere effetti sul clima e sull'evoluzione biologica, ma anche aiutarci a prevenire disastri futuri? ) non saranno però solo scienziati, ma anche giornalisti, scrittori di science-fiction e addirittura umanisti.

In particolare sarà al simposio Ursula Heise, già cattedrata a Stanford, ora alla UCLA di Los Angeles, che si occupa di letteratura e di ecologia, ossia di come narrazioni di alto valore estetico possano contribuire ad esprimere l'assoluta novità dell'esperimento antropocenico. La Heise studia l'estinzione: l'epica dell'evoluzione, la nostalgia della perdita, l'abbandono, la scomparsa prematura. Il suo prossimo libro ("Where the Wild Things Used To Be: Narrative, Database, and Biodiversity Loss") ha preso l'avvio da una analisi della Red List Cites (http://www.iucnredlist.org/), il censimento delle specie che stanno scomparendo dal Pianeta. Molti scrittori che avvertono un senso di responsabilità personale verso i cambiamenti catastrofici cui sta andando incontro la biosfera hanno scelto di scrivere per affrontare la crisi ecologica in modo atavico: raccontando storie (http://www.asle.org). A Washington si cercherà insomma una sintesi tra il pensiero, che da un punto di vista evolutivo è sostanzialmente capacità di astrazione e di simbolizzazione, cioè tessitura di parole e di discorso, e la raccolta sperimentale dei fatti (estinzione, cambiamento climatico). Saper raccontare la storia del Pianeta è indispensabile per diffondere una cultura ecologica. Senza estremizzare l'affermazione di Conrad in Lord Jim - "I fatti, come se i fatti potessero provare qualcosa" - è senz'altro possibile affermare che la dimensione narrativa ( trama, sviluppo, accadimenti imprevisti, azione, catastrofe e rinascita) fornisce ai crudi fatti delle scienze della Terra uno spessore emotivo, e cioè accessibile agli uomini. Le persone sono mosse dalle loro passioni, e su quelle sceglieranno di intervenire o di lasciare che le cose vanno in rovina, in una calda e rassicurante apatia.

Gli Americani questo lo hanno capito benissimo: al Dipartimento di Geografia della UCLA insegna anche Jared Diamond, il Pulizter di "Armi, Acciaio e Malattie" e "Collasso" (entrambi editi da Einaudi), mentre la Heise fa capo al Dipartimento di Inglese. Questo significa che gli studenti della UCLA hanno l'opportunità di affrontare i loro studi di ecologia e sociologia in una prospettiva priva della ghettizzazione forzata, e anacronistica, tra discipline umanistiche e scienze. Anche il National Geographic è ormai in questa direzione: nel numero di luglio il pezzo portante sullo sterminio degli uccelli migratori tra Europa e Maghreb è stato scritto da Jonathan Franzen, l'autore di "Libertà" e "Le correzioni" (Einaudi); e Alexandra Fuller (http://www.youtube.com/watch?v=wFRd3phPrqs), probabilmente la migliore scrittrice di Africa in circolazione, nata e cresciuta nella ex Rhodesia, ha firmato per la Society un reportage sullo Zimbabwe nel numero di maggio. La Fuller scrive per strappare al silenzio la perdita degli ecosistemi, degli alberi, degli animali, del nostro "altrove". Libri come "La leggenda di Colton H. Bryant" (Mondadori) riescono a svelare l'incessante lavoro di rimozione che la nostra società ha elevato a idolo. Non si tratta di diventare catastrofisti - etichetta ormai sterile - e neppure cinici o bellicosi. Si tratta di cominciare a parlare.

Il seminario di Washington introduce infatti nel vasto pubblico un'idea che dovrebbe essere un faro nella notte nel dibattito ambientale, e cioè una visione di noi come specie, non come individui. La società contemporanea ha vezzeggiato per decenni il singolo, l'individuo appunto, con tutta una serie di retoriche dell'io: il carrierismo, il narcisismo, il culto della performance, il successo, la solitudine emotiva delle relazioni consumate via web, l'indipendenza a qualunque costo. Ma nelle politiche ambientali l'egocentrismo di Homo Sapiens conta poco; a fare la differenza è il suo essere specie, all'interno di relazioni ecologiche e biologiche date, non scelte.
Sarebbe estremamente incoraggiante se anche nelle nostre Università (http://www.cambridge.org/us/academic/subjects/literature/literary-theory/cambridge-introduction-literature-and-environment) si cominciasse a concepire la letteratura non come una biblioteca, ma come un banchetto allestito su un prato, attorno a cui si affollano giovani dall'animo ardente, ansiosi di usare il linguaggio per raccontare il Pianeta. In fondo, l'ambientalismo americano nasce con David Thoreau, che di formazione era filologo classico.