Legge Basaglia 40 anni dopo. Il racconto della scrittrice Lucrezia Lerro
"Legge Basaglia 40 anni dopo. Bene o male?". A Milano la tavola rotonda
"Legge Basaglia 40 anni dopo. Bene o male? L'Italia è l'unico paese senza manicomi". Questo il tema della tavola rotonda che si terrà venerdì 25 maggio alla Milano Art gallery in via Alessi. Parteciperanno Maria Rita Parsi, Lucrezia Lerro, Alessandro Meluzzi e Vittorino Andreoli.
In anteprima su Affari il racconto di Lucrezia Lerro
Ho iniziato a sentire la parola pazzia da bambina ancor prima di sapere che cosa significasse. Nel paese dove sono nata e rimasta fino a diciotto anni, la paura della gente per ciò che non rientrava nei loro stereotipi, era per me diventata col tempo prevedibile ed evidente. La riconoscevo quando stava per arrivare dal loro tono di voce, dal dialetto che caratterizzava i discorsi in modo più crudo e feroce del solito. Col tempo capii che ciò che per la gente voleva dire pazzia era incarnato da una donna, Gemma, una signora di quarantaquattro anni. Lei era per gli abitanti del posto il miglior capro espiatorio per le irrazionalità di cui non potevano capacitarsi, o per meglio dire, farsene consapevoli.
Gemma con il suo vestito a fiori perpetuo, spesso di domenica mattina farfugliava durante la messa frasi in apparenza senza senso: "salvatela, portatela via da me, costruiscimi un pesce con la luna." Il prete, visibilmente infastidito, continuava l'omelia poi proprio quando non ne poteva più di quel sottofondo non musicale, si fermava e la invitava davanti a tutti i fedeli ad uscire dalla chiesa, "via Gemma, fuori da qui, straparla quanto vuoi ma non nella casa di Dio." Lei faceva spallucce, serrava le labbra e si arrendeva al diktat del sacerdote, mentre io immobile la vedevo in cerca di una via di fuga come un cane bastonato dalla folla, nel frattempo tra le ragazze del coro tentavo di ripetere a memoria la strofa del Gloria a Dio che l'affettuoso pianista aveva in repertorio per la funzione. Gemma veniva così ogni volta cacciata dal prete e in modo plateale perché lei era, a detta della comunità di trecentocinquanta anime, "la pazza del paese." La pericolosa. (Loro, i pericolosi di Laggiù), scaraventano il peggio su Gemma che ai miei occhi diventava l'angelo da immolare per i peccati del mondo, per le cattiverie della lingua.
Gemma era la "fuori di testa." Sarà... la pazzia in carne ed ossa che circolava tra la gente del villaggio alle pendici del Montestella. Lei era la strana da tenere a distanza. Io l'osservavo durante i miei interminabili pomeriggi di noia e studio, la monitoravo dal basso dei miei pochi anni, dal balcone di casa che affacciava sul suo. Mi chiedevo perché tanto facesse sorridere e allontanare la gente. Perché quel 'pazza' fosse sempre a portata di lingua degli abitanti del borgo. Giá, era la parola pazzia che senza conoscerne nè il significato preciso nè l'inappropriatezza dell'uso, mi turbava. Che cosa significasse pazzia me lo domandai anni dopo alle prese con un manuale di psicologia da studiare per il mio primo esame all'università. Poi una frase illuminante: "quando c'è opera non c'è follia; e tuttavia la follia è contemporanea dell'opera poiché inaugura il tempo della sua verità." L'avevo letta in una nota a piè di pagina che citava Michael Foucault, "Storia della follia nell'età classica", non a caso... Mi ricordai proprio quella volta di lei, mentre sfogliavo Foucault. Gemma, la ripensai così come mi era apparsa durante l'infanzia: triste, con il suo vestito a fiori, con l'espressione del viso avvolta dalla malinconia che diventava nel mio sguardo prima, e tra le mie mani poi, quasi palpabile, come mi sembrava potesse esserlo il polline in primavera, quando di colpo volteggia nell'aria, ho sempre avuto l'impressione di poterlo catturare.
Ricordai, tra la lettura di una pagina e l'altra del mio manuale, di quella volta che attraversando la strada per raggiungere il portone di casa incrociai Gemma da lontano, la vidi con i gomiti appoggiati sul davanzale della finestra. Cantava "una casetta in Canada", una cantilena che non ho più dimenticato, poi di punto in bianco scoppió a piangere, urló, forse per non soffocare nel pianto: "perché l'hanno arrestato? Mi salvava, mi salvava." La frase mi rimase tra i pensieri, a sentire il chiacchiericcio della gente era una pazza da schifare, da emarginare, guai a farla entrare in casa propria, "avrebbe appestato con la sua pazzia chiunque", dicevano il sacrestano e l'ortolano lanciandole delle occhiatacce di giudizio mentre lei faceva adagio i gradini che l'avrebbero portata in chiesa. Ma che cosa nascondevano le sue parole?
A me, sempre più, la storia di scherno e di disprezzo di Gemma non solo non mi convinceva, ma mi era chiaro che fosse del tutto brutale e per questo ingiusta. Disumana. Gemma era d'ascoltare. Da difendere dalla gente di provincia, 'altro che microcosmo protettivo', mi dicevo. La maldicenza delle persone era la radice feroce della sofferenza di Gemma. Quella frase che le avevo sentito ripetere ad alta voce mi tormentava, "perché l'hanno arrestato? Mi salvava, mi salvava." Una volta decisi che con lei avrei parlato, per me non era pazza, la frase che aveva urlato alla finestra mi faceva intuire una pena talmente forte da pungermi nel sonno. C'era una ragione se sragionava ed io forse ce l'avrei fatta a comprenderla. Dopo qualche giorno l'avvicinai e fu così che la vidi per la prima volta sorridere. Fu così che mi raccontò del suo amore, di Mario. Arrestato perché considerato pazzo dalla gente del paese in cui viveva...