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"Scrivere per il cinema e scrivere romanzi? Due approcci diversi...". Luca Giordano racconta il suo debutto letterario

di Antonio Prudenzano
su Twitter: @PrudenzanoAnton

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Luca Giordano, classe ’85, torinese, si è diplomato al Centro Sperimentale di cinematografia, e ha anche scritto la sceneggiatura de “Il terzo tempo”, di prossima uscita nelle sale (distribuito dalla Universal Pictures). Giovanissimo, nel 2009 è stato finalista al premio Solinas. Insomma, la sua carriera da sceneggiatore è già ben avviata. E ora, a 28 anni, arriva anche il debutto nel romanzo, con “Qui non crescono i fiori” (in libreria per la milanese Isbn edizioni). Il libro è la storia di due fratelli, Salvatore e Salvatore, cresciuti in un’Isola insieme al padre alcolizzato. La madre, infatti, se n’è andata quando erano troppo piccoli. Ai due ragazzi, ovviamente, la solitudine di quest’aspra Isola sta stretta. Ma l’adolescente Salvatore ha un segreto: nasconde un cane randagio in una cascina abbandonata, dove il padre gli ha sempre proibito di andare. E quando il ragazzo scoprirà il vero perché, il romanzo di Luca Giordano, che abbiamo intervistato, troverà la sua svolta “ammanitiana”…

LucaGiordano

Domanda inevitabile: che differenze ci sono tra scrivere un romanzo e lavorare a una sceneggiatura?
“Personalmente, di differenze ne ho trovate. E non poche. Le principali sono dovute al metodo e ai tempi, alla libertà che si ha nello scrivere (almeno all'inizio) senza pensare necessariamente al mercato. Il cinema non te lo permette, o almeno l'impressione è che sia quasi impossibile permettersi di non pensare al mercato. Probabilmente sono meno le differenze nello stile che ho deciso di usare in questo romanzo che, per molti aspetti, può anche sembrare visivo come una sceneggiatura. Su questo punto sono però convinto che non sempre un romanzo molto visivo può diventare di diritto un buon film. Sicuramente se vuoi fare una cosa buona in entrambi i campi, la fatica è la stessa e, quando penserai di essere arrivato a una cosa quasi definitiva o perfetta, ci sarà sempre qualcuno che ti farà capire che non è così. Ovviamente dico questo da esordiente in entrambi i casi, quindi queste sono opinioni a titolo personale”.

La vera protagonista di “Qui non nascono i fiori” è forse l’Isola, che nella storia della letteratura, del cinema e delle serie tv rappresenta una metafora già ampiamente utilizzata. A quale “Isola” si è ispirato per il suo esordio letterario?
“Più di una volta, all'inizio della stesura, mi sono chiesto se era meglio ambientarla in luoghi a me più familiari, magari tra le montagne piemontesi, ma ho sempre desistito. L'isola è cambiata più volte, fino a stabilirsi a quella che è ora descritta nel romanzo. Per quanto riguarda invece la metafora, pur avendo una serie infinita di riferimenti, non ho pensato in particolare di ispirarmi a uno di questi. A posteriori, potrei forse dire Il signore delle mosche per l'autodeterminazione e autogestione che si è imposta la famiglia del romanzo, poi il rapporto con l'isola e il fatto che siano entrambi orfani, accomuna un po' Salvatore all'Arturo de L'isola di Arturo. Ma, se per stile posso essermi ispirato ad altri romanzi o autori, quando ho scritto questa storia non ho pensato a una qualche 'isola' in particolare”.

Da sceneggiatore per il cinema, chi sono i suoi punti di riferimento, i “colleghi” di cui ha più stima?
“Alcuni dei miei film italiani preferiti sono sceneggiati da Ugo Pirro, sia da soggetti originali o da adattamenti, da Indagine e La classe operaia ovviamente, a Ogro e Il giorno della civetta . Ho avuto una fascinazione per gli intrecci di Arriaga e adoro quasi tutti i film scritti da Laverty. Citare Shrader è scontato, ma lo faccio. Poi devo qualcosa praticamente a tutti gli sceneggiatori che ho avuto come docenti, maestri più o meno giovani, così tanti che la lista sarebbe davvero lunga”.

E invece a livello stilistico, quali autori hanno segnato il suo percorso di scrittore e di lettore?
“Per questo libro, ma non solo, sicuramente la narrativa americana mi ha influenzato particolarmente. Nello specifico, più di altri, penso a titoli come Oltre il confine e Il buio fuori di McCarthy, Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson. Ma anche, passando all'Inghilterra, Il giardino di cemento di McEwan. Sono tutti autori che, in un modo o nell'altro e anche al di fuori di questo romanzo, hanno formato anche il mio gusto di lettore. Non sono i soli e, se devo aggiungere altri mostri sacri irraggiungibili, inserirei anche Faulkner  e Fante o autori più giovani, come David Peace e McLiam Wilson”.

Ovviamente nella sua testa avrà già immaginato il film tratto dal suo primo libro… Le piacerebbe essere il regista? O stare dietro la macchina da presa non le interessa?
“Non credo di esserne assolutamente capace, almeno per un film di questo tipo. L'interesse di stare dietro la macchina c'è, e ho un paio di progetti che se tutto va bene dovrebbero partire entro l'anno, ma sono sicuramente cose più semplici. Non mi metterei a dirigere ragazzini e cani feroci come opera prima, tendo a rimanere coi piedi per terra altrimenti finirei probabilmente in una casa di cura. O sbranato mentre cerco di spiegare al cane quale espressione usare”.

Ha già in mente la trama del suo secondo romanzo?
“Ho un paio di idee a cui sto lentamente lavorando. Entrambe, pur essendo lontanissime dall'ambientazione e probabilmente dallo stile di Qui non crescono i fiori, hanno molte cose in comune. Tutte e due sono ambientate ai giorni nostri, una è una storia d'amore da tenere nascosta nell'ambiente rap romano, l'altra una storia più legata a temi d'attualità, probabilmente più ambiziosa per stile e struttura. Non è facile capire quale potrebbe essere quella giusta e, probabilmente, il mio secondo romanzo non verrà fuori da nessuna di queste idee”.

Da sceneggiatore, quali saranno i suoi prossimi impegni?
“Non è un periodo semplicissimo per fare lo sceneggiatore o, in generale, lavorare bene e con soddisfazione nel cinema. Per ora già essere riuscito a pubblicare il romanzo e l'uscita imminente - almeno si spera - del mio primo film (Il terzo tempo, regia di Enrico Maria Artale, sceneggiato insieme a Francesco Cenni, prodotto da Filmauro e Csc) è già un enorme soddisfazione. Per quanto riguarda i progetti veri e propri, mi sto concentrando su cose più piccole e fattibili, ovvero un documentario sul più grande clown del '900 che, tra le altre cose, ha collaborato anche con il regime nazista, e un altro documentario su un momento particolare della storia italiana che è entrato in stretto contatto con la mia famiglia. Oltre a questo, ogni tanto scrivo soggetti che probabilmente rimarranno solo su carta”.