Culture

L'adolescenza difficile di una ragazza obesa nel debutto di Matteo Cellini

Matteo Cellini Fazi

 

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LA TRAMA - Caterina è un’adolescente e vive in un paesino di provincia, Urbania. La sua vita si divide tra liceo e famiglia, come quella di una diciassettenne qualsiasi. Cate però non è come gli altri: è obesa, come tutti i suoi familiari. Una vita di discriminazioni le ha insegnato che il mondo è diviso in “persone” e “non-persone”, a seconda della taglia. Caterina è una “non-persona” che fa uno sforzo sovrumano ogni volta che esce di casa. Il coraggio che sfodera per camminare in pubblico la trasforma in una supereroina: “Cater-pillar”, “Super-Cate”, “Cate-ciccia”; una tutina stretta su un corpo enorme, ingombrante e ridicolo è il segno della sua diversità. Convinta che il mondo dei “normali” sia ostile per natura agli obesi, Cate usa tutta la sua intelligenza per anticipare e neutralizzare le cattiverie che gli altri sicuramente le rivolgeranno. Due persone tentano di forzare la solitudine di Caterina: la sua professoressa d’italiano, amica e complice nell’amore per la letteratura, e Anna, compagna di classe a cui Cate ha impietosamente rifilato il nomignolo “annoievole”. Ma c’è dell’altro a terrorizzare Caterina: l’imminente 17 dicembre, giorno del suo diciottesimo compleanno, simbolico giro di boa e passaggio dalla gabbia confortevole della famiglia a un’emancipazione bramata e insieme spaventosa...

Matteo Cellini Fazi

L'AUTORE: Matteo Cellini – Nato a Urbino nel 1978, vive a Urbania e insegna lettere in una scuola media. Cate, io è il suo primo romanzo.

LEGGI IL SECONDO CAPITOLO
(per gentile concessione di Fazi editore)

Io non entro nelle poltrone della Sala Lux, il cinema di Urbania, e neanche Gionata ci entra. Mamma dice che a casa i film sono più belli, ma Oscar continua a chiedere di andare. Così, quando esce qualche film di animazione che sarà visto da tutti proprio tutti i ragazzini della scuola media, mamma mi chiede di prenotare dei biglietti a Fano, dove hanno poltrone più spaziose e comode, a dismisura d’uomo. Siamo gli eroi della dismisura, perché avere chili di troppo è questione di quantità, poi più niente. Per fare me hanno impiegato più pongo che per fare te. Per questo motivo io corro più piano, mi stanco più facilmente, respiro forte. Però siamo uguali. Potremmo essere, ad esempio, due pugili: io rientrerei nei massimi e tu nei pesi piuma, ma non ci sarebbe altra differenza. Le regole sarebbero le stesse: niente colpi sotto la cintura, niente calci, abbracci e morsi. Al mercato, mi si vendesse a peso, costerei di più, tu meno, ma saremmo entrambi sogliole, totani o capponi. Invece tu sei una ragazza e io no. Invece tu sei un ragazzo e Gionata no. Invece tu sei un bambino e Oscar no. Noi siamo obesi. E l’obesità non è semplicemente una categoria tra tante, non è un criterio per classificare le persone. Ma per dividere le persone dalle non-persone. I cinema non sono per noi. Sugli autobus preferiamo stare in piedi, appesi come tranci da macello, e arriviamo sempre puntuali dal dottore per non dover aspettare nelle sale d’attesa, perché i bordi delle cose ci trovano sempre impreparati: le sedie sono scarpe troppo piccole e le porte ci sorprendono di tre quarti, tra un profilo e un primo piano; gli ascensori non ci indovinano, perché due non-persone pesano come tre persone; le scale a chiocciola ci impediscono di salire, gli alberi troppo giovani, le rientranze dei palazzi, i cassonetti di nasconderci quando giochiamo a nascondino o cerchiamo di scomparire alla vista di qualcuno. Per noi esistono negozi di abiti immensi, di sipari; per noi, che forse una incomprensibile forma di cortesia ha permesso finora di acquistare allo stesso prezzo due vestiti al costo di uno. Quando hanno aperto uno di questi negozi proprio qui in Urbania, in fondo al corso, ho sentito addosso una dignità molto triste: allontanata e riconosciuta insieme, indicata da tantissime dita, provvista di una tessera speciale; mi sono fermata davanti alla vetrina (in orario di chiusura, è vero, ma comunque) lasciando che i passanti e il cosmo notassero l’incastro perfetto, il modo in cui rispondevo a quella domanda che nessuno aveva mai fatto: il modo in cui trovavo un posto nel mondo. Lì, decifrando taglie e prezzi tra le pieghe dei manichini, potevo stare soltanto io, e non ho pensato che i negozi per le anoressiche mai apriranno, che soltanto i cani, oltre agli obesi, possono vantare appositi magazzini. Ho solo guardato lontano, lontanissimo, oltre le prime difficoltà burocratiche, oltre le resistenze degli stessi uomini grassi: a una nostra normalità – portate più soddisfacenti nelle mense, riduzione dell’attività fisica a scuola, sedie più spaziose, penne ergonomicamente disegnate sulle nostre mani tonde, pause un po’ più lunghe, e ancora: nuovi record olimpici, nuovi concorsi di bellezza, nuove sfilate di moda; ma nessuna agevolazione, nessuna percentuale che obblighi i concorsi pubblici o i corsi di formazione a preferirci in qualche modo, come succede con le donne. Niente corsie preferenziali, niente di tutto questo, soltanto che la nostra categoria venga riportata nella griglia delle specie viventi (niente classi disagiate o diversamente abili, niente scarti rispetto alla vostra normalità, per favore, è esattamente questo che ci uccide), che un nuovo ramo venga tirato sull’albero genealogico (e no, non diventerà una pianta grassa), che una nuova voce ci riconosca obesi sulla carta d’identità. Come cristiani ed ebrei, per i quali l’avvento del salvatore è una dieta dimagrante che funziona, come elefanti africani ed elefanti indiani. Una nostra normalità come un punto di vista possibile, come un po’ di pazienza se impieghiamo tanto a riprendere fiato, a salire le scale, a lasciarvi passare sul marciapiedi. Si passerebbe dal sistema tolemaico a quello copernicano, e non si tenterebbe di lasciare la terra al centro dell’universo per non venire poi a capo di tutte le orbite dei corpi celesti, dei solstizi e degli equinozi, per chiamare in causa Dio e un catalogo molto voluminoso di note e asterischi, ma subito risulterebbe chiaro, a mettere a posto le cose, che la vita media delle persone è di molto superiore a quella riscontrata. Perché la nostra specie ha una vita più breve, perché noi viviamo di meno. E tutte le statistiche andrebbero rifatte (i tempi medi di percorrenza a piedi e in bicicletta, i test e i sondaggi, l’incidenza delle malattie ecc.), e tutto tornerebbe al suo posto. E i cinema, forse, avrebbero poltrone più spaziose.

 

(continua in libreria)