Culture

Migranti e non solo: la cultura della dignità

Marco Giannini

Luogo.

Lev Semënovič Vygotskij affermò che “una parola senza significato non è una parola[1]” bensì “un suono vuoto” e brillantemente aggiunse che il significato di un termine “è soltanto una pietra nell’edificio del senso[2]”.

La citazione dello psicologo russo è una eccezionale premessa per quanto riguarda la terminologia di “luogo antropologico”. L’antropologia, infatti, non si limita a studiare gli influssi dell’ambiente sulla cultura ma fa luce su implicazioni profonde di tipo simbolico.

La parola greca “oikos” significa “casa” e rappresenta una vera e propria categoria, uno dei principali cardini della cultura e dell’identità; questo termine può assumere un senso più profondo come quello di luogo natio (a cui ad esempio tornare), quello di famiglia, quello di stirpe. La casa come luogo antropologico quindi è fortemente legata al concetto di tradizione e restituisce, costruisce, una identità, sia individuale che collettiva, connotata da intense relazioni emotive (tra persone e luogo e tra le persone che di quel luogo diventano parte integrante).

 L’antropologo ed etnologo francese Marc Augé nell’opera “Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité” ha attribuito al concetto di luogo antropologico tre caratteristiche:

  1. l’essere “identitario” in quanto sono presenti in esso delle particolarità, delle unicità e perciò delle differenze rispetto ad altri luoghi.
  2. l’essere “relazionale” poiché sede dei rapporti umani che si instaurano tra chi lo abita e partecipa.
  3. l’essere “storico” visto che conserva la memoria degli accadimenti, degli eventi.

Lo studio delle società non può che rimandare al concetto di luogo quindi e rintraccia in esse quel procedimento (e bisogno) che tende a fondare e marcare gli spazi in cui esse si riconoscono ed aggregano.

L’epoca attuale massicciamente/volutamente indirizzata verso una globalizzazione apparentemente irreversibile ed interessata da cospicui fenomeni migratori che in Europa sono provenienti in primo luogo dal cosiddetto “Terzo mondo” (caratterizzata dalle strutture multinazionali che delocalizzano le fasi produttive  in ogni angolo del mondo) rimette in discussione molti di questi fattori e contemporaneamente pone in risalto quel meccanismo interno ad essi, evidenziato da Marc Augè, di una alterità interna che si contrappone a quelle esterne; su questo terreno c’è il forte rischio di una strumentalizzazione dei temi in-group out-group (così definiti nella Teoria dell’identità sociale[3]) e quando ciò avviene al centro di questa dinamica non c’è un legittimo interesse verso le importanti esigenze identitarie (e storico-relazionali) dei popoli ma un mero interesse di parte finalizzato al conquistare fette di potere politico. Le semplificazioni sono perciò deleterie e quando si manifestano sotto forma di stereotipo comportano fenomeni di estremizzazione (vedremo successivamente il percorso dallo stigma allo stereotipo, fino al pregiudizio).

Ben diversa nei contenuti e nel senso la critica di Augè, secondo il quale, esistono sempre più “non luoghi” e sempre meno luoghi antropologici. A causa di questa direzione si genera una società (e quindi individui) spersonalizzante, vuota ed inumana che rischia di rimanere scarna dopo essersi massificata ed omologata. Questa critica di Augè è riferita in prima istanza alla sfera del consumismo sfrenato e del “gigantismo” della struttura produttiva visto che egli chiama in causa in primis i grossi centri commerciali, i supermercati, le grandi sale giochi, gli aereoporti internazionali ecc ecc, tutti ambienti dove seppur tra migliaia di persone, regna la solitudine.

E’ da ricercarsi quanto prima quindi un rafforzamento del “Pilastro del luogo”.

Stigma.

Secondo illustri ricercatori come G. Mead il contatto con un ambiente culturale e collettivo contribuisce all’elaborazione di una identità sociale e forma, modula, un proprio regime di condotta e di pensiero.  Proprio come il marchio che anticamente veniva impresso sul corpo degli schiavi, considerati malfattori[4], con il termine “stigma” ci si riferisce a caratteristiche (che, si noti, possono anche essere fisiche) che vengono considerate riprovevoli a priori, secondo i canoni di una comunità. Ogni società (su larga scala possiamo definire come società la nazione di appartenenza, la classe sociale, l’etnia, la religione) infatti stabilisce, anche distinguendosi dalle altre, quali siano e quali non siano le caratteristiche che un membro debba possedere per poter essere considerato parte di essa: ne viene così come stimata la propria “identità sociale”.

Secondo E. Goffman[5] spesso si assegna alle persone una identità sociale virtuale che non corrisponde alla realtà e può accadere che, ad esempio sugli estranei (si pensi agli stranieri), vengano proiettati sentimenti di diffidenza e di timore perché distanti da certi canoni (vengono cioè “stigmatizzati”).

I membri di una società (in-group) possono percepirsi come simili, stimarsi, essere tra loro attratti ed in cooperazione ma al contempo possono percepirsi diversi da chi delle loro società non fa parte associando alle differenze (out-group) un giudizio di valore cioè un pregiudizio (anticamera del razzismo). In queste situazioni c’è il forte rischio che il senso critico dei singoli lasci il posto al pensiero di gruppo e si generino fenomeni discriminatori, di esclusione e da branco (ad esempio il cosiddetto “bullismo”) quando non veri e propri scontri tra gruppi etnici.

Se è chiaro il legame tra stigma e pregiudizio altrettanto chiaro deve essere quello tra questi concetti e quello di “stereotipo sociale”. Lo stereotipo sociale è una percezione generalizzata e semplificata, perciò distorta, di un aspetto della realtà (ad esempio di qualcuno): le persone si servono di stereotipi per economizzare il pensiero, mantenere il proprio sistema di valori ed orientarsi in modo più agevole ma, spesso in conseguenza della stigmatizzazione, tendono a catalogare qualcuno (anche interi gruppi umani) dentro ad uno stereotipo, il quale, è premessa e “contorno” del pregiudizio e dell’esclusione sociale.

Da questo punto di vista appare sensata e molto chiara l’evoluzione del pregiudizio anche in chiave politica intuita da alcuni autori spesso finalizzata al mantenimento dello status quo: generalmente si pensa che pulsioni di pregiudizio si manifestino perché alcuni gruppi (anche politici) magari maggioritari in un determinato territorio scorgano in buona fede in altri gruppi (out-group) dei tratti interpretabili come prova dell’esistenza di un pericolo arrogandosi il ruolo di difensori. In realtà il processo in atto oggi è molto più simile alla stessa sequenza rovesciata: prima si creano le condizioni per far percepire all’opinione pubblica (priva dei necessari anticorpi di fronte alle moderne forme di comunicazione/consenso spesso subliminali) l’alterità come pericolosa ed esecrabile, successivamente, una volta enfatizzato il contesto delle differenze (agendo proprio sugli stereotipi e sullo stigma, sulla buona fede della gente), viene costruito e reso plausibile l’esistenza di un pericolo. Lo stesso avviene per quanto riguarda il razzismo.

Ad ulteriore, indiretta, conferma della resistenza di questi fenomeni sociali G.W. Allport (grande psicologo americano) asseriva “a volte un concetto errato resta irreversibile anche di fronte a nuovi dati conoscitivi che lo disconfermano” (vedasi gli studi condotti del genetista Cavalli Sforza, recentemente scomparso, che dimostrano l’inesistenza delle razze).

Conclusioni: Democrazia e dignità.

Dopo aver descritto i concetti di luogo antropologico e di stigma (e razzismo) ed aver toccato con mano quanto siano connessi a profondissime sfere simboliche ed emotive dell’essere umano non possiamo che augurarci che questi temi vengano trattati sempre con rispetto e rigore senza approssimazioni o strumentalizzazioni di sorta.

Dovendo ricercare un punto in comune, un concetto che possa riunire il senso dell’inclusione (naturalmente opposto al pregiudizio ed allo stigma) con il senso del luogo credo esso possa essere rintracciato “nel significato e nel senso” del termine dignità.

Secondo C. Taylor[6] la dignità si contrappone alla nozione antica di onore perché universalistica ed egualitaria (aggiungerei inclusiva). L’onore invece (legato al cosiddetto “ancien régime)” era un concetto “esclusivo” incentrato su una disuguaglianza: perché qualcuno avesse onore era necessario che qualcuno non l’avesse. Montesquieu in modo del tutto similare nella sua descrizione della monarchia asseriva che l’onore è una questione di “distinzioni”, di differenze.

Il concetto di dignità quindi è l’unico davvero compatibile con la civiltà della democrazia. Secondo il giurista Stefano Rodotà[7]  la “dignità” non è solo una garanzia per la democrazia ma rende chiara l’unicità e l’indivisibilità del diritto fondamentale alla libertà, all’uguaglianza ed alla solidarietà con cui si integra. Bene che “di dignità si parli”, bene che “di dignità si legiferi”.

Il rispetto della dignità umana quindi è condizione imprescindibile affinché venga preservato e si tuteli il senso dei luoghi e delle tradizioni da una disumana massificazione ed omologazione ma al contempo pone basi fondamentali per il riconoscimento e l’inclusione delle molte minoranze regolarmente (cioè nel rispetto della Legge) presenti all’ interno delle società.

 

[1] Vygotskij L.S.,” Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori”, op. cit., p. 124.

[2] Vygotskij L.S., “Pensiero e linguaggio”, op. cit., p.14.

[3] https://www.tesionline.it/appunto/La-teoria-dell%E2%80%99identit%C3%A0-sociale---Tajfel-e-Turner-SIT/476/68.

[4] https://dizionari.repubblica.it/Italiano/S/stigma.html.

[5] E. Goffman (2003). “Stigma. L'identità negata”. Verona: Ombre corte Ed.

[6] J.Habermas, C. Taylor  (1998). “Multiculturalismo”. Milano: Feltrinelli Ed. 

[7] S.Rodotà (2013) “La rivoluzione della dignità”:La scuola di Pitagora Ed.