Culture
Toni Capuozzo si racconta tra guerra, mafia, cronaca: una vita con la valigia
“Dentro sento molte delle cose che mi porto dietro da quando ho iniziato, scolpite, sgrezzate dalla perdita di qualche illusione e dall’accumulo di esperienze”
L’irrequieto Toni Capuozzo si racconta: A 18 anni il carcere in Germania e foglio di via dall’Olanda. “Ho perso 2 anni a scuola, cambiato liceo e ho fatto di tutto prima di iniziare con il giornalismo: manovale in edilizia, operaio fonditore, facchino e insegnante”.
Poi il Nicaragua, l’illuminazione! E le Falkland, l’intervista a Jorge Luis Borges, la Stazione di Bologna, il G8 a Genova, il lungo tour negli USA e la miniera cilena. Quanti ricordi…
“La figura dell’inviato è andata un po’ sparendo, per la crisi e i tagli. Il giornalismo oggi si fa molto di più al telefono, o davanti allo schermo di un computer”.
“Non ho mai sognato di avere una stanza tutta per me in redazione. Sognavo di viaggiare, ero contento quando mi dicevano parti. Una vita con la valigia”. … “Sono un friulano figlio di un meridionale, un italiano senza confini”.
Il ricordo a “Terra!” per Lamberto Sposini e Sandro Provvisionato. E su Berlusconi: “…mi è simpatico, Gli scrissi una lettera di auguri specificando che non l’avevo mai votato. La sua eredità in politica estera mi è sempre sembrata più che positiva”.
Il Covid: “Gli scienziati? Nessuno ha detto: “forse”, “stiamo studiando”, “non so!”. Molte cose cambieranno per sempre: l’informazione, la produzione, il lavoro, lo studio, la ricerca, la socialità. Cambierà il modo di vedere il cinema, di ascoltare la musica, di viaggiare, persino i rapporti tra le generazioni. Non ne usciremo migliori, forse neanche peggiori. Sicuramente diversi”.
E sull’attuale situazione politica: Renzi? “…ha fatto la scommessa più facile: sa che nessuno, nella maggioranza, ha la minima voglia di andare al voto. Gli Stati Uniti, travolti peggio di noi dal Covid, sono andati al voto, nel modo tormentato che sappiamo. Siamo noi che abbiamo paura dell’opinione degli elettori, se temiamo non corrisponda alla nostra”.
… “Salvare la legislatura è il vaccino di un’intera classe politica ingolosita dalle opportunità offerte dall’emergenza!!!”.
Suoi ricordi personali, scorribande giovanili, “teatri” di guerra, giornalismo libero, Covid, crisi di governo, ne parliamo con “un italiano senza confini”, come ama definirsi lui. E’ Toni Capuozzo, classe ’48, nativo di Palmanova (UD), “mastino” da trincea, straordinario professionista, già conduttore del popolare approfondimento settimanale Terra!, Vicedirettore del Tg5 fino al 2013, una dozzina di libri all’attivo, l’ultimo “Piccole Patrie” (2020) edito da Biblioteca dell’Immagine, oggi pungente opinionista. Premio Saint Vincent per il servizio “Il dramma delle foibe”, Premio Brianza, Premio Flaiano, Ambrogino d’Oro, Telegatto, Premio Oriana Fallaci, Premio giornalistico “Città di Salerno”, Premio Renzo Foa e via discorrendo… I difficili anni del liceo, la voglia di andarsene, l’arresto in Germania, la facoltà di sociologia a Trento, il Nicaragua e, finalmente, la passione della sua vita; il giornalismo d’inchiesta. Ci facciamo una stimolante chiacchierata con Toni Capuozzo sia per sbirciare un po’ nel suo turbolento passato che, vista l’indiscutibile esperienza che lo caratterizza, per capire anche il suo punto di vista sull’attuale situazione pandemica, tra le più critiche e per molti aspetti drammatiche mai vissute dal secondo dopoguerra a oggi.
INTERVISTA
D. Antonio “Toni” Capuozzo, nelle sue vene scorre sangue per metà partenopeo (padre) e per l’altra triestino (madre), però la gran parte della giovinezza l’ha vissuta in Friuli. Ci racconta qualcosa di quegli anni?
R. Sono stato un ragazzino difficile. Con la tentazione di scappare di casa sin da bambino: la prima volta ero così piccolo che sono tornato indietro perché ho visto degli zingari e avevo paura mi rapissero. Eravamo una famiglia modesta, ma felice, eppure ero irrequieto, nei giochi, a casa, a scuola. Da ragazzo sono stato peggio, come studente e come figlio. A diciotto anni sono scappato davvero, per girare l’Europa in autostop. Sono finito in carcere – quindici giorni – in Germania per vagabondaggio, e ho preso un foglio di via dall’Olanda. Ho perso due anni a scuola, e non ero uno studente modello. Studiavo solo quello che mi andava, e ho dovuto cambiare liceo dopo aver insultato un insegnante. Sono stato un militante della sinistra extraparlamentare. Mi sono iscritto a Sociologia, a Trento, ma frequentando poco perché lavoravo. Ho fatto un sacco di lavori, da manovale in edilizia a operaio fonditore, facchino e insegnante. Fatto il servizio militare, mi sono laureato. E non sapendo bene cosa fare sono partito per un lungo viaggio. In Nicaragua mi sono imbattuto in una rivoluzione mancata e, tornando in Italia, ho capito che il giornalismo poteva trasformare in un lavoro le mie due passioni, scrivere e viaggiare. A trent’anni ho iniziato a fare il giornalista.
D. Nel lontano ’79 inizia la sua lunga carriera nel giornalismo italiano. Da Lotta Continua a Reporter e Panorama Mese. In quegli anni già in “guerra”, le Falkland. Ci vuol menzionare qualche aneddoto? I primi passi e l’arrivo in Argentina.
R. Mah… è stata l’unica guerra che non ho visto, perché eravamo obbligati a stare nella capitale, a raccontare gli umori di una guerra filtrata dal regime, senza esplosioni, senza urla, senza funerali, solo il mormorio dei commenti per strada e la retorica bellica. Il ricordo più bello è l’essere riuscito a intervistare Jorge Luis Borges. Quello più melanconico l’aver conosciuto l’ultima generazione di grandi inviati, da Mimmo Candito a tanti altri. Quello strano è che allora, come tutti, dettavo i pezzi al telefono, tramite un operatore di una compagnia che si chiamava Italcable. L’operatore era per giorni lo stesso, e si entrava in confidenza, perché doveva restare in ascolto per verificare che la linea non cadesse. E quando al dimafono della redazione mettevano giù la cornetta, al momento di chiudere la telefonata, quell’operatore mi chiedeva: “Dottò, ma come stanno per davvero le cose lì?”. Aveva appena ascoltato un pezzo da cinque, sei cartelle, ma l’idea che le cose stessero diversamente da come la stampa le raccontava era troppo forte.
D. A proposito di conflitti, la lista è abbastanza importante. Jugoslavia, Somalia, Medio Oriente, Afghanistan, Unione Sovietica e….? Vuole aggiungere altro? Magari i siti d’informazione si sono dimenticati un pezzo.
R. No, casomai è il contrario. Le ho fatte tutte, quelle guerre, ma ho fatto anche altro. Cronache italiane; ero un cronista nei giorni della strage, alla stazione di Bologna. Ho seguito gli scontri del G8 a Genova. Ma ho raccontato tante altre storie, in giro per il mondo, non mi sono mai specializzato in guerre, non ho mai vestito i panni dell’inviato di guerra. Ho raccontato l’Alaska come l’ultima frontiera, ho viaggiato per due mesi negli angoli più sperduti degli USA. La storia che mi è piaciuta di più è stata quella dei 33 minatori cileni, nella miniera di Atacama. Era a misura d’uomo: 33 persone impari a memoria i nomi, non sono il bollettino delle vittime ignote in Siria o in Iraq. Ed è una storia finita bene.
D. Tuttavia ci deve passare il termine di “pioniere” degli invitati di guerra. Ha trascorso quasi un’intera vita in trincea.
R. Non so. Sono fiero di aver conosciuto sul campo gli ultimi grandi inviati, come Ettore Mo, o Italo Moretti, o Bernardo Valli. Credo di essere stato il più giovane di quella generazione, piuttosto che il più vecchio di quella successiva. Perché la figura dell’inviato è andata un po’ sparendo, per la crisi e i tagli. Il giornalismo oggi si fa molto di più al telefono, o davanti allo schermo di un computer. Dovessi ricominciare oggi, cercherei un altro lavoro. Vede io non ho mai sognato di avere una stanza tutta per me in redazione – l’ho avuta, sì – e un tavolo e una qualifica e una carriera. Sognavo di viaggiare, ero contento quando mi dicevano parti, e se ho avuto qualche potere nella mia carriera è stato quello di inviarmi da solo, o di chiedere di essere inviato in qualche posto contando su una risposta positiva. Una vita con la valigia, questo sì. Poi le guerre ti coinvolgono, vuoi vedere come va a finire, maturi amicizie ed affetti, ti entrano dentro. In un ceto senso ti rimangono dentro per sempre.
D. Minoli, Mixer e la mafia. Non si è fatto mancare nulla. Qualche ricordo di Giovanni Minoli? Porta con se un particolare affetto?
R. Stima. L’affetto richiede una frequentazione che non ho avuto. Stima perché aveva un’idea forte e nuova di televisione. Ti lasciava libertà di iniziativa, ed era ed è un grande intervistatore. Il ricordo che conservo – mi occupavo soprattutto di ‘ndrangheta - è la mia prima apparizione su uno schermo. Indossavo come fossi un modello dei giubbottini antiproiettile destinati ai magistrati di Locri, che erano ridicoli rispetto alla gravità della minaccia contro di loro. Andai avanti e indietro per un corridoio del tribunale con questi corsetti, senza dire una parola. Avevo già fatto televisione, ma per la tivù svedese, in centroamerica. In Italia era la prima volta, e fu come nel cinema muto.
D. E poi la vicedirezione del TG5 e l’esperienza di “Terra!” La conduzione di una delle trasmissione più accattivanti della fascia serale del Biscione.
R. Sì Terra! è stata una bella esperienza, ma mi mette tristezza parlarne, perché mi riporta a due nomi: Lamberto Sposini, che fu il curatore il primo anno, e Sandro Provvisionato che con me l’ha curata per tanti anni. Sono ancora fiero di aver rinunciato a uno studio, di averla condotta all’aria aperta, per strada, e per qualche tempo addirittura in diretta da Baghdad. Vicedirettore, si. Ma l’unico potere che avevo era un gran potere su me stesso, sopra di me avevo solo il direttore. Non ho mai ambito a dirigere, non mi piace organizzare il lavoro altrui, mi piace inviare me stesso.
D. Il Teatro? Altro suo amore. Quali lavori ricorda con particolare nostalgia?
R. “Tre uomini di parola” è stata un’esperienza amatoriale, anche se ha avuto successo. Per me è soprattutto la storia di un’amicizia, quella con Mauro Corona e Gigi Maieron. Siamo compaesani, e abbiamo alcuni valori in comune. Ritrovarci per me era come tornare al paese. “Pateme tiene cient’anni” è stata un’esperienza più breve, con un amico d’infanzia. Mi piace ricordarla perché mi ha aiutato a capire chi sono: un friulano figlio di un meridionale, un italiano senza confini.
D. La famiglia. Proviamo ad entrare un po’ sul personale. Rapporto con i figli? La ascoltano, chiedono consiglio? Si ritiene un padre premuroso, attento, scrupoloso oppure della serie….”Vivi e lascia vivere, dagli errori ci si rialza e si impara”?
R. Ho sempre dato pochi consigli perché io non li ascoltavo, e nonostante i miei figli per fortuna siano meno irrequieti di quanto ero io, non volevo dare lezioni. Sono stato un padre innamorato, ma spesso assente. Ma credo che gli esempi valgano più delle parole. Vedo che hanno qualcosa di me: l’onestà, la caparbietà nel lavoro. Fanno lavori totalmente diversi dal mio, e il fatto che non siano diventati giornalisti, oltre a liberarmi da qualche preoccupazione, vuol anche dire che per fortuna non hanno inteso prendermi troppo a modello, imitarmi. Per fortuna.
D. Se la ricorda la famosa lettera a Silvio Berlusconi? Solo attestato di stima come editore o anche vicinanza personale?
R. Gratitudine per l’editore. Affetto per un uomo molto fortunato ma anche molto bersagliato. In vita mia l’ho incontrato di sfuggita due volte, e sempre all’estero, a Mosca e in Giordania. E’ bastato per farmi capire che è un uomo che vuole farsi voler bene. Mi è simpatico, ha una sua semplicità diretta nell’accostarsi a una persona. Ha fatto grandi cose, e sicuramente cose meno grandi, ma io ho sempre amato poco il pettegolezzo, i giudizi sulle vite private, e ho amato poco la politica italiana. La sua eredità in politica estera mi è sempre sembrata più che positiva. Gli scrissi una lettera di auguri specificando che non l’avevo mai votato. E la scrissi da pensionato, non era più il mio datore di lavoro. La scrissi dicendo che non l’avrei modificata di una virgola. E andò così: ho scritto quello che pensavo e sentivo.
D. Andiamo al Covid-19. Brutta bestia oppure estrema esagerazione nel prendere la cosa? Lei si identifica più nei cosiddetti negazionisti o nei “realisti”? Ormai la disputa è a tutti i livelli, scienziati in primis. Come si posiziona Capuozzo e quale è il suo pensiero su questa devastante pandemia del ventunesimo secolo? E l’economia? La morte di gran parte dei comporti che sono il tessuto sociale del Paese.
R. Sono un realista. Questo non significa che qualcuno si sia approfittato dell’emergenza. Succede anche in guerra: qualcuno che ci guadagna c’è sempre, in denaro o in potere. Ma la minaccia è reale e mi piacerebbe che tutti i complottisti si dedicassero un po’ di più alla Cina, all’emergere del virus, all’opacità della prima gestione dell’emergenza. Gli scienziati? Epidemiologi, virologi e compagnia bella erano dei signori nessuno, prima. I riflettori della televisione possono fare girare la testa, e nessuno ha avuto l’umiltà dei grandi, nessuno ha detto: “forse”, “stiamo studiando” ,“non so!”. Hanno fatto a gara come politici da talk show. Noi adesso sogniamo il ritorno alla normalità, al prima. Nulla sarà più come prima. Molte insegne spariranno per sempre. Molte cose cambieranno per sempre: l’informazione, la produzione, il lavoro, lo studio, la ricerca, la socialità. Anche quando il vaccino sarà alle spalle, non torneremo a essere quelli di prima. Sarà un cambio come dopo l’11 settembre, destinato a cambiare il mondo. Pensate solo a Trump: se non ci fosse stato il Covid probabilmente avrebbe vinto. Cambierà il modo di vedere il cinema, di ascoltare la musica, di viaggiare. Cambieranno i centri di potere mondiali, e persino i rapporti tra le generazioni. Non ne usciremo migliori, forse neanche peggiori. Sicuramente diversi.
D. A proposito di questioni interne. Crisi di governo, Renzi che lascia la maggioranza e dimissioni dei suoi ministri. Il tuo punto di vista su questa ingarbugliata situazione? Come interpreta la “mossa” del leader di Italia Viva?
R. Secondo me Renzi ha fatto la scommessa più facile: sa che nessuno, nella maggioranza, ha la minima voglia di andare al voto. E sa anche che molti sopportano male il protagonismo di Conte, costellato di risultati modesti, se non peggio. Dunque l’occasione per occupare il centro della scena politica, avere voce in capitolo, condizionare il potere e detenerne un po’. Agli italiani non piace, o non capiscono? Gli umori degli italiani contano nulla, se non si vota. E tutte le litanie sulla irresponsabilità di una crisi in tempo di pandemia? Una recita. Gli Stati Uniti, travolti peggio di noi dal Covid, sono andati al voto, nel modo tormentato che sappiamo. Siamo noi che abbiamo paura dell’opinione degli elettori, se temiamo non corrisponda alla nostra. Io resto legato al ricordo del mio Friuli, dopo il terremoto del ’76. La classe politica regionale di allora sospese le ostilità e lavorò, ognuno con i suoi ruoli, governo e opposizione, in modo concordato per ottenere la miglior legge possibile sulla ricostruzione. Quello che avrebbero dovuto fare lo scorso anno, all’affacciarsi del Covid: un patto di emergenza. Invece hanno fatto campagna elettorale in mezzo alla pandemia, tu dici apro e io dico chiudo, tu dici chiudo e io dico apro. Ma in una campagna elettorale senza voto. Salvare la legislatura è il vaccino di un’intera classe politica ingolosita dalle opportunità offerte dall’emergenza, e sopraffatta dai numeri dell’emergenza.
D. Capuozzo, cosa vuol fare da grande? Sogni e progetti. E, guardandosi indietro, cosa vede? Un bilancio della sua vita professionale?
R. La vita professionale non la considero finita, e i bilanci hanno qualcosa dell’ultimo dell’anno. Però sono contento: ho fatto quello che mi appassionava, mi è piaciuto. So di aver pagato un piccolo prezzo al mio modo di fare giornalismo, per conto mio, senza appartenenze, senza conformismi. Ma una certa solitudine è stata ricompensata dall’affetto dei lettori e dei telespettatori. Qualche volta anche dalla stima della critica, e sempre dal sostegno dei direttori con cui e per cui ho lavorato. Sono invecchiato ma dentro di me sento molte delle cose che mi porto dietro da quando ho iniziato, scolpite, sgrezzate dalla perdita di qualche illusione e dall’accumulo di tante esperienze. Adesso voglio finire la prima parte di un audiolibro sulla mia vita da inviato. L’ho scritta – riguarda gli anni in America Latina - e devo registrare l’audio. Poi passerò a scrivere il resto, i Balcani, l’Africa, il Medio Oriente, l’Afghanistan.