Economia

Banca d'Italia, l'oro? Non si può toccare. Vorrebbe dire uscire dall'euro

Per evitare il rischio che nel 2020 scattino clausole Iva per 23 mld occorrerebbe vendere 500 tn d’oro. Peccato che per i trattati Ue chi decide è la Bce

Quando nel 1893 nacque la Banca d’Italia, le sue riserve auree erano pari a 78 tonnellate di oro fino: da allora ad oggi le riserve auree italiane sono arrivate a 2.452 tonnellate, cui si devono aggiungere le 141 tonnellate conferite alla Bce a inizio 1999 con la nascita dell’Unione monetaria europea e dell’euro. Un quantitativo che rende la Banca d’Italia il quarto maggior “tesaurizzatore” d’oro la mondo dopo la Federal Reserve, la Bundebank e il Fondo monetario internazionale e che è andato aumentando dal secondo dopoguerra per due motivi: da un lato grazie ai continui afflussi di valuta estera dovuti all’accumularsi di attivi di bilancia commerciale, dall’altro per rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario italiano gravato da oltre 2.300 miliardi di euro di debito pubblico, pari al 132% del Pil.

'Non ho studiato" l'ipotesi di utilizzare l'oro della Banca d'Italia per sterilizzare l'aumento dell'Iva "e' qualcosa che voglio approfondire. L'importante e' che sia certificato e ratificato che quell'oro sia degli italiani, che non si sa mai nella vita". Il vice presidente del Consiglio, Matteo Salvini, in una conferenza stampa a Montecitorio. "So che c'e' una proposta di legge, chiedete a Borghi, vorrei ribadire quello che per me e' scontato: per quanto mi riguarda rimane li'". Il testo in questione e' stato presentato dal presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, Claudio Borghi (Lega) ed e' all'esame della commissione Finanze della Camera. 

Proprio l’elevata incidenza del debito in raffronto ad un Pil che nonostante l’ottimismo del governo italiano pare destinato a crescere poco o nulla quest’anno (la Commissione Ue parla di +0,2%, a fronte di un costo del debito pubblico attorno al 3,8%) rende particolarmente delicato ipotizzare eventuali vendite a beneficio del Tesoro che utilizzerebbe il ricavato per evitare di dover tagliare la spesa pubblica stante l’impossibilità, cosa non inconsueta, di centrare le previsioni economiche inserite nella legge di bilancio e con esse di rispettare i rapporti deficit/Pil e debito/Pil concordati in sede europea.

Discorsi finora teorici. Se anche volesse il Tesoro, dopo il “divorzio” del 1981 voluto per sancire una volta per tutte l’indipendenza della Banca d’Italia dal potere politico di turno, non può chiedere a Via Nazionale di vendere oro e girargli i proventi, anche se una proposta di legge presentata dal parlamentare leghista Claudio Borghi (attuale presidente della Commissione Bilancio alla Camera) vorrebbe fornire una “interpretazione autentica della normativa vigente in materia valutaria, volta a chiarire che la Banca d’Italia gestisce e detiene, ad esclusivo titolo di deposito, le riserve auree, fermo restando il diritto di proprietà dello Stato italiano sulle riserve, comprese quelle detenute all’estero” (fisicamente nei forzieri di Banca d’Italia vi sono infatti circa 1.200 tonnellate d’oro, il resto essendo in gran parte custodito presso la Federal Reserve, la Banca d’Inghilterra e la Banca nazionale svizzera).

Se anche tale legge venisse approvata, l’Italia aderendo all’euro ha ceduto la propria sovranità su tale materia, come ricordato anche dal direttore generare di Banca d’Italia, Salvatore Rossi, per cui dovrebbe chiedere alla Bce di procedere e attendere la sua risposta, essendo la materia regolata dall’articolo 105 del Trattato di Maastricht sottoscritto dall’Italia. In tale articolo si sottolinea come il sistema europeo delle banche centrali (Sebc), operando “in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” e “favorendo una efficace allocazione delle risorse”, ha tra i compiti che assolve quello di “detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri” (di cui le riserve auree sono una parte, ndr).

In sostanza se il governo italiano volesse rimettere le mani sulle riserve auree facendosi forza del fatto che giuridicamente un conto è la proprietà (diritto reale su una cosa), un conto il possesso (utilizzo di un bene indipendentemente dal diritto reale su di esso), un altro ancora la detenzione (avere il possesso su una cosa senza però volersi comportare come se si fosse il proprietario), di fatto sarebbe un modo per cercare di rinegoziare la nostra adesione all’eurozona e prefigurare, sia pure senza mai citarla direttamente, una “Italexit”.

Se però la Ue e la Bce acconsentissero alla richiesta italiana, come potrebbe avvenire la vendita dei lingotti di Banca d’Italia? Dal 1999 esiste un accordo sottoscritto anche da Via Nazionale, il Central Bank Gold Agreement, che regolamenta le vendite di metallo biondo per evitare vendite massicce non coordinate che potrebbero destabilizzare il mercato e far crollare le quotazioni.

Il più recente di tali accordi, di durata quinquennale, scadrà il prossimo 27 settembre dopo di che andrà rinegoziato e i negoziati partiranno verosimilmente subito a ridosso delle elezioni europee di maggio. Parlare di vendita più o meno forzosa di parte delle riserve (che in base alle regole contabili dell’Eurosistema sono valutate ai prezzi di mercato, attualmente pari a 1.307 dollari l’oncia ossia 42 euro al grammo) potrebbe dunque servire al governo italiano per cercare di rinegoziare a proprio favore il prossimo accordo tra banche centrali, permettendo alla Banca d’Italia, i cui vertici sono in questo momento non casualmente finiti sotto pressione, di poter “autonomamente” vendere quanto basta per evitare di far scattare le clausole di salvaguardia l’anno venturo.

Queste ultime, rappresentate da un incremento dell’Iva, valgono 23,1 miliardi di euro: visto che una tonnellata d’oro vale circa 42 milioni di euro, occorrerebbe vendere fino a 500 tonnellate o più per coprire la falla. Resterebbero tra 1.900 e 1.950 tonnellate d’oro fino per rassicurare i mercati sulla solidità dei titoli di stato italiani o, detta in altro modo, circa una quarantina di milioni di oro a garanzia di ogni miliardo di debito pubblico, ossia una garanzia di circa il 4% in oro, per ora allineata al costo del debito. Il sistema potrebbe reggere, sempre a patto che i tassi di mercato non iniziassero a salire nuovamente facendo saltare il banco.

Luca Spoldi