Economia

Fed, Powell prepara la mini-sforbiciata. Ma col taglio non salva la poltrona

Powell si prepara a tagliare i tassi dello 0,25% nella riunione Fed di oggi e domani, ma la mossa non basterà a garantirgli di conservare il posto. Ecco perché

La Bce ha già fatto sapere di essere pronta a tirare di nuovo fuori il bazooka e limare i tassi, riaprendo i rubinetti della liquidità tramite la riattivazione del programma di acquisto di bond sul mercato. La Banca del Giappone resta immobile sui tassi e conferma la guidance che tali resteranno almeno sino alla primavera del prossimo anno, aggiungendo che “non esiterà” a prendere nuove iniziative in caso di necessità. Jerome Powell, numero uno della Federal Reserve finito nel mirino di Donald Trump che preme per un corposo taglio dei tassi (di mezzo punto percentuale) dal canto suo si prepara a sforbiciare di uno 0,25% i tassi sui Fed Funds già domani, ma il mercato è convinto che entro i prossimi 12 mesi dovrà tagliarli di un 1%.

Trump Powell
 

Mentre anche la Banca d’Inghilterra ha rimesso nel cassetto ogni velleità di “normalizzazione” ed è pronta ad agire se la Brexit dovesse rivelarsi più problematica del previsto. Che le banche centrali abbiano ingranato la retromarcia è acclarato, che questo basti a centrare l’obiettivo di un’inflazione al 2% (o superiore, se passerà l’idea di cercare di recuperare gli anni perduti lasciando correre “simmetricamente” i prezzi per qualche tempo anche oltre i limiti “ortodossi”) è molto meno certo.

Anche perché, come nota Didier Saint-Georges, di Carmignac, nonostante probabilmente i mercati saranno soddisfatti “del nuovo atteggiamento proattivo assunto dalle banche centrali, in un contesto economico e politico momentaneamente rassicurante”, anche la politica monetaria “non convenzionale” sta esaurendo i suoi effetti su mercati ed economia reale. Insomma: per Powell e colleghi tagliare nuovamente i tassi o tornare a riacquistare bond per innaffiare di liquidità i mercati potrebbe non essere sufficiente a salvare il posto.

jerome powell
 

Non è un problema solo di “sintonia” o fiducia del singolo banchiere centrale nei confronti del proprio governo. E’ che probabilmente, spiega Saint-Georges, occorre arrivare alla “nomina di presidenti di banche centrali maggiormente dotati di una formazione giuridica e di una comprovata intelligenza politica, piuttosto che di competenze nei tecnicismi della politica monetaria”. Scegliere Christine Lagarde come successore di Mario Draghi da novembre la Bce ha fatto scuola e questo potrebbe essere solo il primo di una serie di rinnovi tutti nella stessa direzione.

Davos Christine Lagarde
 

La riprova si avrà già a fine anno, quando scadrà il mandato di Mark Carney ai vertici della Banca d’Inghilterra, poi potrebbe toccare a Haruhiko Kuroda, visto che nonostante abbia portato i tassi d’interesse sullo yen in territorio negativo fin dal 2016, la crescita economica giapponese resta evanescente ormai da quasi un quarto di secolo (salvo il +4,2% segnato nel 2010 dopo il calo dell’1,1% del 2009 e del 5,4% del 2009, il Pil giapponese è dal 1996 che non supera il 2% annuo di crescita).

Lo stesso Powell, il cui mandato scadrà solo a inizio febbraio 2022, potrebbe essere costretto a fare le valige anzitempo, o comunque trovarsi sistematicamente in minoranza in un board dove Trump continuerà a nominare consiglieri più inclini ad una politica monetaria più “proattiva” di quella che Powell ha mostrato finora di apprezzare.

Se resterà al suo posto, dovrà verosimilmente prendere atto che i tempi sono cambiati e che per far ripartire l’economia occorre un maggiore dialogo tra banche centrali e governi e riuscire a negoziare riforme strutturali e programmi di rilancio della crescita in cambio del sostegno offerto in termini di assorbimento dei nuovi titoli di debito pubblico e mantenimento di tassi bassi se non proprio negativi. Se non siamo alla monetarizzazione del debito, che fino a poco tempo fa tanto sembrava spaventare i tedeschi (che invece ora sembrano strizzare l’occhio all’ipotesi), poco ci manca.

Il problema delle implicazioni che una simile inversione di tendenza potrebbe avere sui mercati obbligazionari e azionari, che da dieci anni a questa parte devono confrontarsi solo con la repressione finanziaria e il rigore di bilancio, resta intatto. Ma se dovranno scegliere tra una maggiore crescita oggi e un possibile rischio futuro di insostenibilità del debito, difficilmente i governi mondiali supportino ancora a lungo le politiche di banchieri centrali “vecchio stile”. Persino quando propongono politiche monetarie (un tempo) non convenzionali.

Luca Spoldi