Economia
ArcelorMittal conferma l'addio all'Italia. Fumata nera a Palazzo Chigi
Niente da fare. ArcelorMittal se ne va da Taranto. A quanto si apprende sarebbe stata questa la linea che Lakshmi e Aditya Mittal avrebbero espresso al governo Conte al tavolo a Palazzo Chigi dopo aver ascoltato le offerte dell’esecutivo giallorosso sulla vicenda dell’ex-Ilva. Una linea irremovibile che è quella espressa dal gruppo franco-indiano nella lettera di due giorni fa inviata ai commissari con cui ha annunciato di voler restituire l’impianto siderurgico.
Anche la soluzione del decreto legge che avrebbe ripristinato lo scudo dell’immunità proposto da Conte, com'è stato ipotizzato in mattinata dal ministro per il Sud Giuseppe Provenzano, non avrebbe smosso gli industriali indiani dell’acciaio, consapevoli che il provvedimento, una volta arrivato in Parlamento per la conversione in legge entro 60 giorni, avrebbe incontrato l’opposizione di un folto gruppo di pentastellati guidati dall’ex ministra Barbara Lezzi.
Ma un'eventuale reintroduzione dello scudo penale, la cui abolizione è stata l'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso, non sarebbe servita a placare gli animi dei Mittal, adirati anche per i toni duri adottati dal governo nelle ultime 24 ore. Accuse, in particolare, arrivate dal ministro per lo Sviluppo economico Stefano Patuanelli che ha profondamente criticato il leader mondiale dell'acciaio per non essere stato in grado, a sua detta, di mettere in campo un valido piano industriale per rilanciare Taranto.
Accuse a cui si sono sommati poi un insieme di fattori, fra cui le frequenti accuse del governatore della Puglia Michele Emiliano vissute dai Mittal come degli insulti, i provvedimenti dei magistrati che hanno sequestrato la banchina di Taranto rendendo impossibile il rifornimento di materie prime per ArcelorMittal al porto (e il dover ricorrere allo scalo di Brindisi) e la demagogia dei politici. A partire dal leader della Lega Matteo Salvini che ha approfittato del caso Ilva per attaccare la maggioranza e il M5S di Luigi Di Maio. Nello scorso governo, anche sulla questione dell'Ilva, il numero uno del Carroccio sedeva nella stanza dei bottoni di Palazzo Chigi e quando fu eliminato lo scudo penale non disse una parola.
Insomma, troppo per il leader mondiale dell'acciaio con sede a Londra che ha risanato situazioni ben più complesse e la cui attività è finita nel mezzo dei giochi politici di una maggioranza instabile difficili da capire e da coniugare con le logiche corporate di un gruppo che si muove su scala globale. Pare che al termine della riunione a Chigi i sei ministri, che sono stati seduti di fronte ai Mittal per tre ore e mezza, si siano alzati dal tavolo sconsolati e basiti per un esito che nell'esecutivo si riteneva fino all'ultimo di poter evitare (da qui anche la sicurezza sui toni durissimi adottati da Conte&c prima dell'incontro).
Si spiegherebbero anche così il lungo silenzio surreale dei ministri iper-social pentastellati che, diversamente con quanto avvenuto in passato su situazioni egualmente critiche, non hanno fatto trapelare niente sul faccia a faccia dell'esecutivo con i Mittal e la scelta del governo di prendere tempo per ragguagliare l'opinione pubblica sulla vicenda ex Ilva solo attraverso una conferenza stampa da tenere al termine di un consiglio dei ministri previsto inizialmente per le 17 e poi cominciato in ritardo.
Fonti vicine all'azienda spiegano che ora l'esecutivo e le varie anime della maggioranza troveranno un escamotage per gestire la comunicazione dell'accaduto e la crisi di un impianto che dà lavoro a 10 mila dipendenti diretti, più altri 10 mila di indotto. Gestione che potrebbe anche proporre la solita ritualità del tavolo fatta di altri incontri, ma che di fatto non cambierebbe la volontà di andarsene del colosso indiano.
Per le tute blu di Taranto si parla di un modello Genova ovvero il ricorso alla cassa integrazione massiccia. In attesa che Conte e Patuanelli tirino fuori dal cilindro l'alternativa ai Mittal.