Economia

Golfo, l'azzardo calcolato di Trump. Strali contro l'Iran guardando alla Fed

Luca Spoldi

Cresce la tensione tra Usa e Iran e questo può avere ripercussioni sia sui tassi, sia sul petrolio.Chi vince e chi perde dall'escalation nello stretto di Hormuz

Le tensioni crescenti tra Stati Uniti e Iran dopo il secondo attacco nel giro di un mese a delle petroliere (questa volta due con “carichi destinati al Giappone”, il 12 maggio quattro di cui due saudite) nello stretto di Hormuz per ora non ha impatti sul prezzo del petrolio, che anzi tende a flettere di oltre mezzo punto sia per quanto riguarda il Wti texano sia il Brent del Mare del Nord, visto che i timori sulla tenuta della crescita superano quelli legati all’incremento dei rischi geopolitici in Medio Oriente. Ma se lo scontro si facesse ancora più duro e si arrivasse alla chiusura, anche solo temporeanea, dello stretto di Hormuz, da cui transita il 40% di tutto il petrolio mondiale quale potrebbero essere le conseguenze?


 

Non è facile dare una risposta lineare, in quanto mai come in questo caso una reazione potrebbe innescarne un’altra di segno opposto. In prima battuta però si potrebbe ritenere che i rischi per la crescita globale crescerebbero e questo potrebbe indurre ad un atteggiamento ancora più accomodante le banche centrali dei paesi sviluppati a partire dalla Federal Reserve.

I mercati, anzi, stanno già iniziando a scontare un taglio “a sorpresa”, si fa per dire, dei tassi americani già dalla prossima riunione del board della Fed (in calendario il 18 e 19 giugno) o al più tardi da quello del 30-31 luglio. Ipotesi che sta già offrendo nuovi spunti per una ripresa dei mercati obbligazionari e un calo dei tassi a lunga scadenza (il T-bond americano rende il 2,06% stamane, contro il 2,63% di inizio anno) tanto che se la Federal Reserve non tagliasse potrebbero scattare sui mercati prese di profitto a brevissimo termine.

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Più incerte le previsioni sul prezzo del petrolio: tendenzialmente dovrebbero salire ma dato che l’Opec e la Russia debbono ancora trovare un’intesa per eventualmente estendere sino a fine anno i tagli alla produzione in scadenza a fine mese, e visto che Mosca sembra voler tenere le parti di Teheran nella vicenda, un blocco dello stretto che apparisse temporaneo e in parallelo un aumento dell’offerta di petrolio russa (e magari dello shale oil americano o del Brent inglese e norvegese) potrebbero alla fine compensarsi, lasciando prezzi non distanti dai valori attuali.

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Anche perché dal lato della domanda il crescere delle tensioni tra Stati Uniti e Cina (che a sua volta ha invitato come Mosca a non trarre conclusioni affrettate) rischia di far slittare ancora ogni intesa commerciale tra i due paesi, intesa che pure gli analisti di T. Rowe Price giudicano “naturale” in vista dell’anno elettorale americano (nel 2020 si voterà per confermare o rinnovare l’inquilino alla Casa Bianca). E con una guerra commerciale strisciante i dubbi sulla tenuta della crescita mondiale aumenterebbero e con essi la possibilità di una crescita della domanda di petrolio inferiore alle attese, con effetti depressivi sulle quotazioni dell’oro nero.

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Minore crescita mondiale vorrebbe dire anche minore tensione sui prezzi al consumo, ossia minori spinte inflazionistiche. Cosa che finirebbe con l’obbligare quasi il successore di Mario Draghi, chiunque esso sia, a riaprire il quantitative easing o in alternativa ridurre ulteriormente i tassi ufficiali. Cosa che comunque porrebbe fine al tentativo di “tightening” anche al di qua dell’Atlantico, favorendo ulteriormente il ruolo di “porto sicuro” dei Bund (per i quali si andrebbe dunque verso tassi sempre più negativi), oltre che un rimbalzo dei mercati azionari.

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Sarebbe una manna anche per il governo italiano, che vedrebbe alleggerirsi la pressione dei mercati anche nell’ipotesi di uno spread stabile o in ulteriore crescita. Questo indirettamente potrebbe significare una maggiore facilità nel trovare un compromesso tra Lega e M5S sui temi principali da inserire nella prossima legge finanziaria, che dovrà riuscire a neutralizzare l’incremento dell’Iva, offrire un qualche sostegno per una crescita che resta assente nonostante tutti i proclami fatti e dare un segnale di continuità nella proposta di ridurre le tasse e di aumentare i sostegni al reddito, il tutto senza sforare eccessivamente in termini di deficit e debito pubblico.

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Sul fronte valutario, infine, ci sono pochi dubbi circa il fatto che il dollaro tornerebbe ad apprezzarsi contro le principali valute, così dando un poco di fiato ad esportatori netti come l’Europa (e la Cina stessa) che negli ultimi tempi erano andati in affanno a seguito della sempre più aggressiva politica commerciale di Trump, fatta a colpi di tweet con cui il presidente Usa minacciava di alzare dazi ogni volta non era convinto della situazione in essere o della vantaggiosità degli accordi proposti.

Naturalmente tutto questo nell’ipotesi che non si arrivi ad un confronto militare diretto che potrebbe trasformare la “guerra fredda” del XXI secolo in una prova muscolare particolarmente pericolosa tra gli Usa da una parte e un “fronte del male” a cui potrebbero aderire Russia, Cina e Iran dall’altro. E che i mercati si comportino con grande razionalità e non si facciano prendere dal panico.