Economia

Il Financial Times affossa il Ddl Capitali. Ma sbaglia: ecco perché

Il voto maggiorato è realtà in Olanda. Per attrarre capitali esteri servirebbe distruggere la burocrazia e la giustizia miope: mission impossible (o quasi)

Il Financial Times affossa il Ddl Capitali. Ma sbaglia: ecco perché

Felix The Cat
 

Sull’edizione odierna del Financial Times è comparso un articolo dal titolo piuttosto esplicito: “Come il nuovo Ddl Capitali potrebbe ritorcersi contro le aziende italiane” (“How Meloni’s new ‘Capital Bill’ could backfire on corporate Italy”). Ma è davvero così? Ha ragione la bibbia della “city” quando descrive un panorama a tinte fosche? La risposta è un po’ più articolata di così. Partiamo da un assunto: negli ultimi dieci anni 13 gruppi quotati a Piazza Affari hanno trasferito la loro sede legale in Olanda. E l’hanno fatto non perché appassionati dei canali di Amsterdam, ma per il voto maggiorato.

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Come funziona il voto maggiorato? Gli azionisti di lungo periodo, i più fedeli, hanno diritto a un pacchetto plurimo che consente di esercitare un controllo pur senza detenere una quota di capitale azionario troppo elevata. In sostanza si può monetizzare la propria partecipazione senza perdere il controllo. Quanti voti per ogni “aficionado”? Secondo la bozza del Ddl Capitali, che deve ancora avere il via libera europeo prima di arrivare in aula, sarebbe fino a 10 voti per azione. In questo modo, si vogliono premiare gli azionisti di lungo periodo. 

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In Olanda Brembo, Campari, Mfe e Fca (prima della fusione con Psa per diventare Stellantis) offrono dieci voti per azione, Ariston addirittura 20. Quindi non ci sono grandi differenze rispetto alla governance garantita in altri Paesi. La Meloni, nella sua conferenza stampa divenuta ormai iconica, ha dichiarato che questa norma “serve a limitare il meccanismo con cui si perpetuano all'infinito i cda a prescindere dai soci. Al mercato una previsione che rafforza il peso degli azionisti piace”, di fatto rispondendo indirettamente a Philippe Donnet che aveva sollevato perplessità sul rinnovo del board di Generali che avverrà ad aprile del prossimo anno. 

Il Financial Times individua il principale beneficiario del Ddl Capitali, quel Francesco Gaetano Caltagirone che nell’articolo viene definito “un alleato fondamentale per la Meloni”. Nel caso del Leone, però, c’è da tenere in conto un duplice scenario. Da una parte, che il duplex Caltagirone-Delfin – che ha un pacchetto complessivo di poco inferiore al 15,8% - si troverebbe comunque di fronte al 13,1% di Mediobanca e a quello di altri azionisti di lungo corso e quindi non avrebbe esattamente un’autostrada per fare “il bello e cattivo tempo”. Il secondo aspetto è che il cosiddetto “opt-in” va votato dai soci e inserito in statuto: e non è detto che questo avvenga anche a Trieste.

Il Financial Times critica dunque il provvedimento perché di fatto mantiene lo status quo e perché è un assist ai grandi gruppi imprenditoriali familiari e uno schiaffo agli hedge fund. In questo caso il discorso è ancora più complesso: l’Italia è la terra per antonomasia delle imprese di famiglia, dei grandi “padroni” e cambiarne la natura non è così semplice. Per incentivare i capitali stranieri servirebbe un profondo rinnovamento della burocrazia, della giustizia, delle procedure. E dunque, visto che questo non succede, al momento si preferisce trasferire armi e bagagli la sede legale all’estero per una governance più efficace. Il Ddl Capitali, lungi dall’essere perfetto, prova almeno a far restare in Italia le aziende

Il presidente di Banco Bpm, Massimo Tononi, nei giorni scorsi aveva spiegato che “all'estero è quasi ovunque la norma e anche in Italia si sta diffondendo. È uno strumento molto efficace, purché non divenga un meccanismo di perpetuazione autoreferenziale del consiglio di amministrazione, come talvolta accade negli Stati Uniti”. Dunque, dopo il flop della tassa sugli extra-profitti delle banche, dopo il goffo tentativo di cambiare le regole in corsa – quello sì un attentato contro gli investitori stranieri – dopo l’annuncio spuntato dei 20 miliardi derivanti dalle privatizzazioni, ora il governo Meloni sembra aver messo a punto qualcosa di (un po’ più) efficace. In attesa che le Camere arrivino a delineare il provvedimento in maniera più definitiva.