Economia
Lavoro e digital mismatch, la chiave di svolta è l'intesa pubblico-privato
Nel post Covid il mondo corre e le imprese si attrezzano per stare al passo con i cambiamenti. L'intervista a Enrica Banti, responsabile comunicazione di Huawei
Mismatch, dall’inglese assortire male. Nel mercato del lavoro una “condizione di squilibrio” che si crea quando vi è una mancata corrispondenza tra i requisiti richiesti dalle aziende e le competenze offerte dai lavoratori. Un limite enorme per il mercato del lavoro, un tema più attuale (e cruciale) che mai per molte aziende. In un momento storico di ripresa economica post pandemia per molte realtà torna la necessità di trovare personale con competenze nuove.
Le stesse che probabilmente, prima del 2020, si davano per sconosciute, o non indispensabili. Soprattutto in materia digitale, tecnica e scientifica. Settori di mercato in forte crescita, tendenzialmente popolati da (molti) più uomini che donne, nel quale però, qualcosa sembra stia mutando. Di giovani e opportunità, digital mismatch e carriere femminili ne abbiamo parlato con Enrica Banti, head of corporate communications di Huawei.
Mismatch, lo squilibrio tra requisiti (richiesti dalle aziende) e le competenze (offerte dai lavoratori): per una realtà imprenditoriale è il più grande scoglio (odierno) da superare?
Esistono tanti studi a riguardo: ognuno dà una sua tesi per quantificare questa mancanza o sbilanciamento. Sappiamo però, per certo, che già adesso, ma anche nei prossimi anni in ambito tecnico scientifico ci saranno alcune migliaia di lavoratori che mancheranno rispetto ai posti di lavoro disponibili: questo è un dato di fatto. Tutti gli sforzi dovranno quindi convergere in una sola direzione, cercando di ridurre ancora di più il gap.
A livello concreto?
Il governo da parte sua sta adottando alcune misure, ma allo stesso tempo anche le aziende devono fare la propria parte. La ricetta di successo è l’intesa tra il settore pubblico e quello privato: il pubblico da solo e il privato da solo non possono arrivare al punto di successo. In tal senso, Seed for the future è un modello di programma che, col tempo, si è rivelato vincente.
Un “seme per il futuro”, come nasce l’idea di questo progetto?
Lanciato nel 2008 da Huawei, arrivato in Italia nel 2013, fino al 2019 il programma dava la possibilità ai laureandi selezionati in discipline scientifiche di seguire corsi tecnici per due settimane, direttamente dal quartiere generale in Cina, su discipline meno approfondite in ambito universitario. Con la pandemia il corso, purtroppo, è diventato online. Ma un risvolto positivo c’è stato: abbiamo avuto la possibilità di accogliere più studenti. E in più abbiamo deciso di continuare a investire, aggiungendo la possibilità per i giovani studenti di svolgere uno stage retribuito all’interno di una piccola media azienda che sta attuando un programma di trasformazione digitale.
Un doppio beneficio per studente e azienda?
Sì esatto. In questo modo l’azienda ha accesso a una competenza digitale, e lo studente ha la possibilità di fare un’esperienza sul campo in un ambito concreto, vedendo come si lavora dall’interno.
Spostando lo sguardo verso la questione di genere vediamo come il mercato richiede sempre di più lauree Stem, ma la presenza femminile appare ancora limitata. Come ovviare?
Ci si dovrebbe muovere a vari livelli. Se prima parlavamo di formare semplicemente delle competenze, ora si tratta anche di attuare dei cambiamenti culturali: l’ostacolo è doppio, se non triplo. Sul mercato, in realtà, esistono già delle iniziative, che andrebbero però potenziate. Ad esempio, tornando a Seed for the future, fin dalla sua genesi, il programma deve garantire fino al 40% di presenza femminile. Ma non solo. Anche sul fronte degli sviluppatori, un campo ancora più maschile rispetto a quello tecnologico, abbiamo creato dei moduli e degli incentivi propri per le sviluppatrici donne.
Riassumendo, la chiave vincente è creare un’intesa tra pubblico e privato e incentivare ciò che già esiste?
Il tema caldo è sia quello dell’ottimizzazione, rendendo accessibile alle donne le iniziative che già esistono. E a ciò si affianca il discorso culturale. Summer school for female leadership in the digital age ad esempio è un’altra iniziativa focalizzata sul tema della leadership femminile. Qui non stiamo parlando solo di competenze, ma anche di soft skills. Nel concreto abbiamo pensato a una specie di corso universitario per 27 donne, una per ogni paese europeo, che in una settimana hanno affrontato tutta una serie di tematiche: coding, digital marketing, ma anche mindfulness e leadership. Proprio per non usare solo una formazione tecnica, ma una preparazione alla leadership.
Parlando di leadership femminile non può che tornare in mente la polemica scoppiata intorno alle parole del professor Alessandro Barbero: le donne mancano di aggressività, spavalderia e sicurezza di sè, per arrivare a ricoprire certi ruoli. Uno spunto che si riallaccia al discorso culturale: la visione a volte è troppo stereotipata?
Quelle determinate caratteristiche a volte aiutano. Ma la visione è sicuramente stereotipata. Non dico che queste tratti siano totalmente disgiunte dal fatto che un uomo possa far carriera, però diciamo che formando anche le future generazioni noi speriamo che si possa ragionare in modo diverso: che non serva la prepotenza per raggiungere posizioni di leadership. Che ci sia la competenza, ma anche un’attitudine a credere in sé stessi. In azienda, ad esempio, questo tema non è nuovo: Huawei ha sempre avuto figure femminili nel board, nelle cariche più alte. Chaterine Chen, corporate senior vice president director of the board di Huawei è un esempio di questo.
Infine, preziosa è la legge che il Senato ha varato sul gender pay gap: esistenza di pari salario sulla carta, misurazione complessiva del divario di genere... Potrebbe essere, se non la soluzione, un primo passo verso una società più equa?
Sicuramente è un primo passo. Ed è importante che elementi che sembrano ovvi vengano in qualche modo codificati e normati, perché evidentemente ce n’è bisogno. Inoltre, che sia da attuare anche un profondo cambiamento culturale. Perché purtroppo, come sappiamo, nel mondo delle aziende le professioni non è che siano così tanto codificate che a definizione di professione corrisponda retribuzione: ci sono molte aree grigie. Di conseguenza se è un bene che esista una norma, è anche un bene che cambi dove ce ne sia bisogno, in modo da garantire parità o iniziative che permettano alle donne di avere una carriera in azienda senza poi sacrificare anche la famiglia o altri affetti.