Economia
Made in Italy difficile da tutelare. I punti deboli della proposta leghista
In questi ultimi decenni sono centinaia i marchi celebri finiti all’estero, per un valore di decine di miliardi di euro. Ma...
Un elenco di marchi “storici” del Made in Italy contro la delocalizzazione selvaggia: è questo in estrema sintesi il tentativo targato Lega con cui il Salvimaio prova a interrompere il progressivo depauperamento del tessuto industriale italiano dopo decenni di assenza di una qualsivoglia politica industriale degna di tal nome con una proposta di legge presentata in settimana alla Camera. Una proposta molto “pop” destinata a far discutere, ma intanto a guardare anche solo ai tre settori di punta dell’economia italiana (moda/lusso, alimentare e industria meccanica), l’elenco dei marchi celebri del Made in Italy finiti in mani straniere appare sterminato.
Nel settore moda/lusso hanno proprietari esteri marchi come Fendi, la cui maggioranza fu rilevata nel1999 da una joint venture Prada-Lvmh per 850 milioni di dollari, con la partecipazione italiana rilevata due anni dopo dai francesi (che nel frattempo tra il 2000 e il 2001 avevano preso il controllo sia di Pucci sia di Acqua di Parma), Gucci, a lungo conteso tra Lvmh e Kering con quest’ultima (che nel 2001 aveva rilevato per 156 milioni Bottega Veneta) che riuscì ad aggiudicarsela infine con un’Opa da 7 miliardi nel 2004, Safilo, il cui controllo passò all’olandese Hal Holding nel 2009, Bulgari, comprato nel 2011 da Lvmh per 4,3 miliardi.
Ma anche Valentino, conquistato nel 2012 dal fondo del Qatar Mayhoola per circa 700 milioni di euro, Brioni, finita nello stesso anno da Kering per 350 milioni di euro, mentre ancora nel 2012 Miss Sixty finì ai cinesi di Crescent HydePark, Loro Piana (l’80% è passato ancora una volta a Lvmh nel 2013 per 2 miliardi), Pomellato, rilevato sempre da Kering nel 2013 per 300 milioni di euro, Krizia, finita nel 2014 ai cinesi di Shenzen Marisfrolg Fashion, Poltrona Frau (il cui controllo passò lo stesso anno dal fondo Charme alla statunitense Haworth), Fiorucci, venduta nel 2015 a Janie e Stephen Schaffer (fondatori del marchio di intimo Knickerbox), La Perla, venduta lo scorso anno alla Sapinda Holding del finanziere tedesco Lars Windhorst, Yoox, passata lo stesso anno a Richemont per 2,7 miliardi o Versace, ceduto ancora nel 2018 a Michael Kors per 1,83 miliardi di euro.
Nell’alimentare/ristorazione, dopo le cessioni avvenute tra gli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo di marchi come Stock, Orzo Bimbo, San Pellegrino, Star o Bertolli, dal 2013 il celebre bar Cova al centro della “Milano da bere” di Via Montenapoleone è di proprietà di Lvmh (che ha rilevato l’80% del capitale dalla famiglia Faccioli per 32 milioni di euro). Ma non sono più italiani anche i popolari Salumi Fiorucci (il 65% del capitale venne ceduto al fondo Vestar nel 2005, sei anni dopo il 100% venne girato agli spagnoli-messicani di Campofrio Food Group). Nel 2010 l’incubatore/investitore tedesco Rocket internet (proprietario tra l’altro di Zalando, Dalani e CityDeal) si è “mangiato” PizzaBo, per poi cederlo nel 2016 alla danese Just Eat (che già si era “pappata” Clicca e Mangi, a Milano, e DeliveRex a Roma).
Dal 2011 sono in mano di investitori esteri anche i marchi Gancia (rilevata dal “re della vodka”, Roustam Tariko), Parmalat (di proprietà dei francesi di Lactalis, già proprietaria dei marchi Galbani e Invernizzi), il salumificio Rigamonti (fin dal 2009 controllato al 70% del gruppo brasiliano Jds, nel 2011 salito al 100% del marchio valtellinese) e Fattoria Scaldasole (passata più volte di mano, da ultimo alla francese Andros). Pernigotti, la cui vertenza è da settimane sul tavolo del vicepremier Luigi Di Maio, è invece di proprietà della tedesca Toksöz dal 2013.
E poi ancora: nel 2014 la spagnola Ebro Foods ha preso il controllo sia del riso Scotti sia della pasta Garofalo (il cui 52% venne pagato 62 milioni), dal 2015 i gelati di Grom sono finiti a far compagnia a quelli di Algida nel portafoglio dell’anglo-olandese Unilever, Birra del Borgo è del colosso InBev dal 2016, lo stesso anno in cui la Birra Peroni, già di proprietà del colosso SabMiller, fusosi proprio con InBev, è stata girata alla giapponese Asahi. In tutto si stima che ormai siano in mano straniere marchi alimentari italiani che valgono oltre 10 miliardi di euro.
Per completare una rapida ricognizione dell’ex Made in Italy finito in mani estere negli ultimi anni, cosa che peraltro non sempre ha comportato lo smantellamento della produzione italiana (che è anzi cresciuta in casi come Bulgari o Loro Piana), occorre almeno aggiungere in ambito industriale nomi come Italo-Ntv, ceduto per 1,98 miliardi al fondo infrastrutturale americano Global Infrastructures Partners lo scorso anno sul filo di lana rispetto all’ipotesi di quotazione in borsa, Magneti Marelli, passata dal gruppo Agnelli ai giapponesi di Calsonic Kensei per 6,2 miliardi sempre nel 2018, Ansaldo Breda e Ansaldo Sts (finiti ad un altro gruppo giapponese, Hitachi, già nel 2015 per 1,9 miliardi complessivi), Italcementi (ceduta nel 2015 ai tedeschi di Heidelberg per 1,67 miliardi).
Da notare che erano già finiti all’estero negli anni a cavallo del secolo nomi come Omnitel, Wind, Ercole Marelli, Fiat Ferroviaria, Fiat Avio, Benelli, Loquendo e le acciaierie Lucchini, ma l’elenco potrebbe allungarsi ancora. Non sorprende dunque che l’idea di tutelare imprese e marchi nazionali non sia nuova: in Francia già quattro anni fa è stata approvata una norma in base alla quale le imprese (sopra i mille dipendenti) che vogliono delocalizzare debbono trovare un acquirente per gli impianti che dismettono in territorio francese. Ricerca che deve durare almeno tre mesi e se infruttuosa comporta una multa di 28 mila euro per ogni posto di lavoro perso fino ad un massimo pari al 2% del fatturato annuo del “delocalizzatore”.
La proposta normativa italiana affronta il problema in modo differente, prevedendo che nel caso di un “marchio storico” ossia legato a imprese “di eccellenza, collegate a uno specifico luogo di produzione”, la cui domanda di registrazione “sia stata depositata da più di cinquant’anni” (un elenco dei quali verrebbe tenuto dal ministero dello Sviluppo economico), chi acquisisce il marchio può vedere dichiarati decaduti i diritti di sfruttamento dello stesso “se il titolare del marchio cessa la produzione nel territorio del comune in cui lo stabilimento produttivo principale era situato alla data di registrazione del marchio”.
Aprire altri stabilimenti, si badi, non è vietato, ma ciò non deve avvenire a scapito della produzione nello stabilimento principale al momento di acquisto del marchio stesso. “A noi - ha commentato il vicepremier Matteo Salvini presentando la proposta normativa - interessa che il consumatore sappia cosa compra, cosa che oggi non è permessa, nel nome del libero mercato, che è caos totale”. Di buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno anche in economia e secondo diversi analisti la proposta di legge rischia di ingessare il valore del Made in Italy rendendo ancora più difficile la sopravvivenza di aziende magari storiche ma ormai in crisi per ragioni che possono andare dall’assenza di eredi alla difficoltà di accedere al credito (e dunque di sostenere adeguati investimenti).
O più semplicemente essere penalizzate da una produttività inferiore a quella dei diretti concorrenti, problema che da decenni è alla base dell’erosione della competitività dell’industria italiana, stante il numero ridotto di aziende eccellenti e la costante moria di piccole e medie imprese non più in grado di crescere e rinnovarsi. Tutti nodi che la proposta della Lega, per come è stata presentata, non sembra al momento in grado di sciogliere, dato che definire cosa sia un marchio storico o persino quanto possa valere non significa automaticamente modificare l’attrattività del nostro paese agli occhi degli investitori, nazionali o internazionali che siano.