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Economia
Marchionne, solo a Romiti pesa l’assenza di italiani ai vertici Fca
LaPresse

Ha ragione Cesare Romiti, per 25 anni a fianco dell’Avvocato nel ruolo di amministratore delegato di Fiat Auto, che intervistato sulle scelte per il “dopo Marchionne” confessa la propria amarezza per il fatto che “non ci sia nemmeno un italiano ai vertici” aggiungendo di trovarlo molto strano dato che a suo dire i dirigenti italiani di Fca sono eccellenti e “i migliori sono quelli di tradizione Fiat, marchio che invece sta scomparendo”?

O hanno ragione gli analisti di Mediobanca Securities, che commentano molto più laconicamente: l’uscita di Alfredo Altavilla, Coo Emea, rappresenta una notizia negativa per Fiat Chrysler Automobiles, “ma probabilmente piuttosto attesa” e dunque non tale da incidere significativamente sul titolo, al di là del prevedibile andamento volatile di breve termine (a proposito del quale più di un operatore scommette che dopo il rimbalzino odierno il titolo potrebbe tornare già da domani sulle montagne russe, in attesa di avere maggiore visibilità sulla nuova strategia e sui risultati che potrà produrre)?

I mercati amano poco le nostalgie, ancor meno le suggestioni “populiste” a difesa della nazionalità di un’azienda o del suo management, specie quanto l’azienda in questione opera su un mercato maturo come quello dell’auto, che da anni soffre di un problema strutturale di sovracapacità produttiva (che Sergio Marchionne ha affrontato con determinazione arrivando a chiudere, in Italia, lo stabilimento di Termini Imerese, nonostante questo gli abbia alienato le simpatie di sindacato e politici italiani molto più di quanto non abbiano fatto in America analoghe decisioni relative a impianti Chrysler) e presenta una serie di criticità al suo interno che nulla attengono con la nazionalità del suo top management.

Per essere chiari: era noto fin dai tempi di Giorgio Garuzzo, negli anni Novanta Ceo di Iveco e come tale promotore dell’acquisizione di New Holland da Ford, che il problema dell’allora costruttore torinese era quello di avere troppi marchi e troppi modelli in relazione alle proprie risorse, come lo stesso Garuzzo descrisse puntualmente una volta uscito dal gruppo e diventato banchiere d’affari con la Mid Industry Capital. L’acquisizione di Chrysler avrebbe potuto acuire ulteriormente tali problemi se non fosse stato per la determinazione con cui l’italiano Marchionne sacrificò il marchio Fiat (ridotto ad una società mono prodotto, la Fiat Cinquecento) capendo che le city-car in cui storicamente il gruppo era specializzato erano ormai il segmento meno redditizio e più competitivo di tutto il mercato.

In nessuno di questi problemi, risalenti all’epoca Romiti, la nazionalità di un singolo top manager ha mai potuto fare la differenza. Di più: la scelta di affidare a Mike Manley ad interim le deleghe di Altavilla, che fino a fine agosto lavorerà a fianco del nuovo boss per rendere la transizione il meno traumatica possibile, non implica che Manley, manager inglese entrato in DaimlerChrysler con la responsabilità delle vendite in Gran Bretagna e poi promosso nel 2009 a responsabile dello sviluppo di Jeep dallo stesso Marchionne, le mantenga a tempo indeterminato.

Nei prossimi mesi a prendere il posto di Altavilla, dunque, potrebbe essere anche un altro top manager italiano, come il napoletano Antonio Filosa, al momento Coo dell’area America Latina (mercati per cui da inizio anno è anche responsabile per i marchi Alfa Romeo e Maserati), oppure come il torinese Pietro Gorlier, Coo per l’area componenti oltre che presidente e Ceo di Mopar. Quello che sarà importante, al di là del nome e della carta d’identità del manager, sarà la sua capacità di creare valore per gli azionisti, identificando correttamente trend di mercato, opportunità e minacce.

Era del resto italianissimo Giuseppe Morchio, l’uomo che fu in grado di pilotare il gruppo fuori dall’emergenza immediata nei due anni prima dell’arrivo di Marchionne, ma questo non lo aiutò a sburocratizzare l’allora Fiat Auto, come invece avrebbe fatto il suo successore, né ad evitare lo scontro con la famiglia Agnelli e le banche finanziatrici del gruppo, che invece hanno sempre sostenuto Marchionne ottenendo in cambio un impressionante incremento di valore, col titolo Fca che, in termini rettificati, è passato dagli 1,67 euro del giugno 2004 ad un picco di 19,55 euro a inizio anno prima di scivolare sugli attuali 16,5 euro circa (pari comunque a un +900% circa). 

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