Economia
Media, giornalisti alla guida come Ceo.Tagli stop, così si rilancia l'editoria
Thomson Reuters e BuzzFeed, due modelli agli antipodi per l'informazione del futuro
Neanche il tempo di raccontare delle prime dosi di vaccino inoculate e già si torna a parlare della stampa in crisi, dell’editoria che arranca, dei tagli da fare, dei professionisti a rischio. Ma come stanno i giornali in Italia? La prima risposta ovvia è male, con l’indagine odierna dell’Osservatorio Stampa Fcp che certifica un crollo del -18% degli investimenti pubblicitari da gennaio a ottobre, con picchi del 40% per i periodici. Ma dire “male” è dire una banalità, perché sono decenni che si parla di un settore in crisi e della necessità di mettere in campo contromisure.
Alcune testate hanno vissuto momenti di tregenda per una gestione un po’ troppo finanziaria e un po’ poco giornalistica. E forse, la prima chiave di volta è proprio qui. Se si usano i quotidiani esclusivamente come se fossero delle aziende, con bilanci da far quadrare sempre e moltiplicazione delle ore lavorate, non si va lontano. Quindi, troppi manager al potere e pochi esperti di giornalismo. Perché la catena di comando sopra al direttore è ancora piuttosto ampia ed è in genere appannaggio di laureati in economia.
Prendiamo gli Stati Uniti, ad esempio, patria di un giornalismo differente in cui chi scrive – al di là dell’appartenenza o meno a un ordine professionale – è visto come un watch dog, un cane da guardia. Difficile immaginare in Italia che il presidente uscente venisse tacitato dai giornalisti di diverse televisioni perché quello che diceva veniva bollato come “falso”. Quando Jeff Bezos non era ancora l’uomo più ricco del mondo prese 250 milioni del suo portafoglio personale (senza passare da Amazon) per acquistare il Washington Post che affidò a Fred Ryan, già fondatore di Politico, capo della comunicazione di Regan e uomo dei media. Oggi lo storico quotidiano è visto come un esempio di rilancio, con vendite tornate positive e bilanci solidi. Bezos ha messo 50 milioni di capitali freschi al suo arrivo, ma poi ha chiesto al Post di camminare “sulle sue gambe” ed è stato ricompensato.
Altro esempio: BuzzFeed è un medium americano online specializzato in un tipo di informazione lontano dai canoni tradizionali. Inchieste approfondite si alternano ad argomenti più leggeri. È rapidamente diventato una potenza, tanto da poter vendere i propri contenuti – estremamente dettagliati – a Netflix, mostrando come la famosa cross-medialità sia un’arma che deve essere usata se si vuole tenere alta la bandiera del giornalismo efficace.
Non solo: Jonah Peretti, ceo dell’azienda, ha recentemente rilevato da Verizon Media l’Huffington Post, il “contenitore” di blog fondato dallo stesso Peretti insieme ad Arianna Huffington. E la scelta è stata di compiere una transazione di questo tipo per veicolare le informazioni su tutte le piattaforme messe a disposizione dalla stessa Verizon, che è diventata azionista di minoranza di BuzzFeed. E si sperimenteranno forme sempre più innovative di inserzioni pubblicitarie.
Dunque, un primo seminato da seguire c’è ed è pure evidente: le decisioni manageriali, le scelte strategiche devono competere a chi fa di professione il giornalista o si occupa di media. D’altronde, chi affiderebbe un ospedale a un laureato – con tutto il rispetto – in scienze della comunicazione? Probabilmente nessuno.
In Italia però si continua a guardare solo ai conti e forme innovative di giornalismo all’orizzonte non se ne vedono. Anzi, si inizia a temere per un nuovo drastico “machete” che si può abbattere sulle redazioni. Reuters, ad esempio, ha iniziato a fornire i contenuti per Yahoo News non più dalla sede italiana, ma da quella di Danzica, in Polonia, che traduce nella nostra lingua notizie provenienti da altri paesi.
D’altronde, come dare torto all’agenzia? Lo stipendio medio in Polonia è di poco superiore ai 500 euro, mentre un giornalista assunto qui in Italia percepisce almeno 35mila euro all’anno. Una gran bella differenza. E l'Associated Press e la Dow Jones hanno deciso di affidarsi all’intelligenza artificiale per pubblicare le notizie in merito alle relazioni trimestrali delle aziende, in modo da ottimizzare le risorse.
Un ultimo problema è proprio rappresentato dalla professione: chi è assunto può dormire tra due guanciali, con stipendi tendenzialmente superiori alla media nazionale. Ma i freelance, che sono sempre più numerosi e rappresentano un plotone numericamente due volte superiore a quello degli assunti si arrabattano con 10mila euro all’anno. Provate voi a vivere a Milano con quella cifra.
Non se ne esce: i professionisti devono trovare nuovi modi di raccontare la realtà. Gli editori devono convincersi che le logiche meramente aziendaliste non pagano. E il pubblico deve tornare a innamorarsi delle testate di qualità e di chi può garantire informazioni vere e verificate, magari raccontate in forme più innovative della mera articolessa sul giornale. Ad esempio, come è successo all’Ultimo Uomo, cantiere di “Long form journalism” sportivo che è stato rilevato da SkySport. Una via c’è, ma è stretta e complessa.