Economia

Mediobanca e Banca Generali spose? La verità sull'endorsement di Doris

di Marco Scotti

Banca Mediolanum, invece, procederà da sola

Come mai un uomo prudente nelle sue esternazioni come Massimo Doris ha deciso durante la presentazione del bilancio dei nove mesi di Banca Mediolanum di lanciare una autentica bomba come la concreta possibilità di fusione tra Mediobanca e Banca Generali? In Piazzetta Cuccia la famiglia Doris siede con il 3,3% del capitale e con un peso specifico rilevante dettato dal fatto di essere parte del cosiddetto “Patto di Consultazione”, che detiene il 12,6% del capitale, più di Leonardo Del Vecchio. Quindi se l’amministratore delegato di Banca Mediolanum parla di una cosa così, lo fa a ragion veduta.

Oltretutto, non si tratta di un innamoramento dell’ultima ora, ma piuttosto di un inseguimento iniziato già da qualche settimana e finora stoppato proprio da Generali, soprattutto nelle persone di Leonardo Del Vecchio (ancora lui) e Francesco Gaetano Caltagirone, che insieme valgono il 10,25% del capitale azionario complessivo. Il motivo? Piazzetta Cuccia si sarebbe detta pronta a mettere sul piatto il poco meno del 13% del capitale azionario detenuto nel “Leone” per trovare la liquidità necessaria a rilevare il 50%+1 delle azioni di Banca Generali. La quale è una piccola miniera d’oro: le masse totali sono a 70,4 miliardi, in aumento del 7% e nei nove mesi la raccolta è arrivata a 4,1 miliardi, con l’obiettivo neanche tanto nascosto di raggiungere i 5,5 entro la fine dell’anno.

Ma Massimo Doris, nel presentare i conti del “suo” istituto di credito non si è fermato a questa considerazione che già di per sé rappresenta un endorsement preciso, ma ha anche provato a entrare nel merito dell’operazione stessa: «Se Mediobanca comprasse Banca Generali, l'operazione avrebbe senso da un punto di vista industriale. Banca Mediolanum, invece, procederà da sola. Le aggregazioni saranno necessarie nel settore delle banche tradizionali, meno probabili tra le società di risparmio gestito». Altra bomba: gli istituti di credito sono quindi pronti a un giro di valzer assimilabile a quello dell’automotive, dove il numero dei player si riduce progressivamente e le aggregazioni per ottenere la famosa (o famigerata) “massa critica” sono sempre più frequenti? Parrebbe di sì.

Ovvio che tra le pieghe delle dichiarazioni di Doris si legga un briciolo di vanità: Banca Mediolanum non ha bisogno di aggregazioni perché, forte di un Cet1 al 21,8% può decisamente non sentirsi chiamata in causa da possibili esigenze di accorpamento. Ma le altre banche? Di Mps che potrebbe maritarsi con Unicredit si è già detto di tutto e di più, ma molto dipenderà dalle intenzioni del Mef e dalla volontà di mettere (ancora) mano al portafoglio in un momento in cui la liquidità serve come il pane anche nell’economia reale. Intesa Sanpaolo e Ubi è ormai cosa fatta.

Ma ci sono altri temi che dovranno per forza costringere le banche a studiare nuove strategie: prima di tutto, quando si allenteranno le misure di protezione messe in campo dal governo (crediti sospesi, pagamenti dilazionati e così via), è pronta ad abbattersi sugli istituti di credito un’ondata da 300 miliardi di euro di npl che sono per ora tenuti parcheggiati dalla moratoria ma che a breve torneranno di grande attualità. Le operazioni di cartolarizzazione devono per forza di cose diventare all’ordine del giorno per ridurre il peso delle sofferenze nei bilanci. Bilanci, oltretutto, che saranno per forza di cose un po’ meno brillanti dello scorso anno, perché gli impieghi si riducono, perché i depositi si contraggono, perché la crisi si fa e si farà sentire pesantemente.

Serve la garanzia Gacs (Garanzia cartolarizzazione sofferenze), attivata già dal 2016 e che ha permesso di concludere 27 operazioni per un controvalore di 75 miliardi. L’ammontare dei recuperi lordi dal momento in cui la pandemia ha iniziato a farsi sentire è calato del 13% e chissà se questo dato non sia addirittura ottimistico alla luce della seconda ondata. È ancora Doris a dettare la linea, suggerendo come «l'aggregazione tra banche può essere resa necessaria anche dalla nuova normativa che impone sempre di più di spendere soldi in tecnologia per essere compliant. In tutti questi casi, fare economie di scala è spesso una necessità». Non solo: le banche in questo momento sono anche poco “appetibili” per potenziali cavalieri bianchi, investitori pronti a puntare una fiche sul comparto. E questo perché il blocco dei dividendi rende gravosa la presenza nel portafoglio di titoli di questo o di quell’istituto di credito.

A fare da contraltare a istituti di credito che scontano un modello di business un po’ fuori dal tempo e che vedranno un 2021 sulle montagne russe, ci sono gli asset manager che procedono spediti. Perché la liquidità è ancora elevata, nonostante gli sconquassi del Covid e perché gli italiani stanno progressivamente scoprendo come una gestione dei propri risparmi, non più parcheggiati semplicemente nei conti correnti, è il modo migliore per farli rendere. Si calcola che negli ultimi 15 anni le famiglie totalmente liquide hanno rinunciato a un potenziale di crescita di ricchezza finanziaria prossima al 20%. Il 30% circa dei risparmiatori detiene comunque in liquidità tutto il patrimonio finanziario. Percentuale che sale per chi ha meno di 25.000 euro (55%) mentre cala per i possessori oltre i 100.000 euro (15%).