Economia

Mps e Unicredit, il matrimonio tarda ancora. Ecco perché

di Marco Scotti

Tanto tuonò che (non) piovve. I rally di ieri di Mps e soprattutto Unicredit avevano convinto gli analisti che sì, questa volta ci fossero le condizioni per portare a compimento le nozze che avevano spinto Jean Pierre Mustier a farsi da parte. Le ultime notizie che arrivano da Roma parlano di un Tesoro pronto a fare ponti d’oro pur di mollare Rocca Salimbeni alla banca di Piazza Gae Aulenti. Dopo gli esuberi previsti dal piano industriale, dopo la cessione di Npl, dopo iniezioni di capitale, ora da Via XX Settembre si dicono disposti ad accollarsi – tramite Amco – 14 miliardi di euro di crediti non performing detenuti da Unicredit. Non solo: si vocifera che potrebbe esserci una seconda tranche di acquisti - da parte dell’agenzia di stato che si occupa dei crediti deteriorati - in favore di Mps dopo gli 8,1 miliardi di fine 2020 per il progetto Hydra. Un’offerta generosa, almeno a una prima analisi. Ma in realtà non si risolverebbe quasi nulla, per diversi ordini di motivi.

Primo, perché su Mps sta per abbattersi uno tsunami difficile da arginare fatto dal combinato disposto di minori entrate a causa del Covid, moratorie originate dalla pandemia e un incremento esponenziale degli incagli. Di fronte a un tripletta di ganci capaci di mandare al tappeto qualunque pugile, Rocca Salimbeni non può far altro che aspettare che arrivi la buriana. Ma è come proteggersi da una pioggia di meteoriti con gli ombrellini di carta per i cocktail.

Secondo, perché in seno a Unicredit sta montando un fronte del “no” che vede due azionisti di rango a guidare la rivolta. Da una parte c’è Leonardo Del Vecchio, l’ex martinitt che ha deciso di far sentire sempre più il suo peso nel salotto buono della finanza. Con la sua Delfin, il magnate milanese detiene l’1,9% del capitale (ad oggi quantificabile in circa 350 milioni di euro) e non ha alcuna intenzione di farsi coinvolgere in operazioni che esulino dal business nodale dell’azienda. Dall’altra ci sono le Fondazioni, che già sudano freddo all’idea di non poter beneficiare dei dividendi se dovesse essere confermato quanto chiesto dall’Eba e dalla Bce di bloccare la distribuzione delle cedole in maniera significativa anche nel 2021. Questi soggetti, dunque, non hanno gran voglia di mettersi in pancia una potenziale bomba a orologeria. Tanto più senza riuscire a capire chiaramente quali benefici potrebbero esserci nel futuro.

Anche perché (problema numero tre) non si può certo dire che Unicredit stia vivendo un momento facile della sua storia. Si ritrova alla vigilia di una delle più gravi crisi per il mondo bancario senza un amministratore delegato nominato e con un presidente che è più espressione della politica che non dei reali interessi degli azionisti. I parametri sono buoni, nel senso che le richieste di moratorie riguardano il 6% dei crediti lordi totale. Intesa SanPaolo, per esempio, ha un rapporto doppio. Lo stock di crediti deteriorati complessivi ammontava al 30 settembre a 22,7 miliardi, in discesa di oltre un miliardo rispetto ai tre mesi precedenti. Il problema, semmai, per Gae Aulenti riguarda i profitti, già in calo nel 2019 e dati ulteriormente in diminuzione alla fine di un 2020 da ricordare e non per motivi piacevoli.

Ancora: il quarto motivo di preoccupazione degli azionisti (Del Vecchio in testa) è che l’offerta del Tesoro sia un po’ un cavallo di Troia. D’altronde, se si analizza ulteriormente quanto verrebbe messo in campo da Apco si vede che tre anni fa, in un’analoga operazione che coinvolse Intesa Sanpaolo, Veneto Banca e la Popolare di Vicenza, lo Stato mise sul piatto complessivamente 17 miliardi, di cui 12 di garanzie dirette. Questa volta, valutando i 14 miliardi di Npl al 20% (come fa Asco) saremmo a circa 5 di dotazione cui si sommerebbero altri tre di crediti deteriorati. Totale poco meno di 8, meno della metà di quanto dato a Messina.

Quinto problema: rimangono fuori le possibili cause legali che dovrebbero scaturire dalla condanna di Profumo e Viola. I due manager sono stati entrambi condannati a sei anni di carcere e a una multa da 2,5 milioni. Se le responsabilità della banca di Rocca Salimbeni dovessero essere accertate in toto, si parla di richieste di risarcimento danni fino a 10 miliardi complessivi. L’istituto, finora, ha accantonato in via prudenziale 900 milioni, ma sono un po’ pochi se si pensa che soltanto la Fondazione Mps potrebbe chiedere fino a 3,8 miliardi.

Infine c’è un ultimo motivo di grande angoscia, che riguarda l’intero sistema bancario: gli Npl non sono un tema che turba i sonni soltanto della banca senese, ma di tutto il mondo bancario. Il livello medio di crediti deteriorati nel nostro Paese, nonostante interventi ripetuti, è ancora dell’8,6%, contro una media europea che si ferma al 2,9%. Monte dei Paschi guida questa poco invidiabile classifica con un tasso dell’11,8%. Unicredit fa molto meglio (4,8%), ma rimane comunque due punti sopra il livello continentale. E dunque, si domandano gli azionisti, che senso avrebbe sposarsi con un soggetto che è perennemente a rischio di cadere? Forse, non molto...