Pechino gioca con la moneta. Quella guerra valutaria mai finita...
Escusatio non petita, accusatio manifesta, dicevano i latini. Così a molti la dichiarazione del premier cinese Li Keqiang secondo cui la Cina auspica un cambio del renminbi stabile dopo la svalutazione attuata dalla Banca del popolo cinese agli inizi del 2016, superiore per portata anche a quella vista lo scorso agosto, è sembrata una foglia di fico per coprire quella che molti considerano una vera e propria guerra valutaria in corso. A giudicare dal crollo del petrolio, dovuto, come ha ricordato qualche giorno fa Morgan Stanley, al solo fattore valutario per livelli via via inferiori ai 55-60 dollari dove si sarebbe dovuto trovare per i soli aspetti fondamentali (l’equilibrio tra domanda e offerta) sembrerebbe evidente. Ma la guerra, se davvero è in corso, non è stata scatenata da Pechino: anzi la Cina si è limitata a le svalutazioni che altri paesi avevano attuato (o subito) dopo la decisione della Federal Reserve del 16 dicembre scorso di rialzare di un quarto di punto i tassi ufficiali sul dollaro, mossa che non si registrava dal lontano 2006.
Eppure, nota Alessandro Fugnoli, strategist del gruppo Kairos, il cambio spot del dollaro non si è praticamente mosso in questo mese e la stessa svalutazione del renminbi di cui parla la stampa mondiale è stata in realtà molto contenuta (dopo il picco del 2,7% toccato l’8 gennaio successive correzioni indotte dalla stessa Banca popolare del popolo cinese hanno ridotto a circa il 2% la svalutazione contro dollaro). Ma se il dollaro non ha mostrato una forza particolare né il renminbi una eccessiva debolezza, chi è che ha provocato le tensioni sui mercati di queste settimane? Guardando solo alla componente valutaria sono due i paesi sul banco degli imputati: l’Argentina (il peso ha perso il 38% abbondante dopo aver toccato un picco di oltre il 41,5% di svalutazione) e la Russia (il rublo si è svalutato progressivamente di circa il 10% contro dollaro). Nessuno dei due paesi sembra peraltro in grado di giocarsi la carta di una svalutazione competitiva.
L’Argentina sta lentamente cercando di fare i conti con la realtà e ha deciso il giorno dopo l’aumento dei tassi americani di rimuovere i controlli ai movimenti di capitale per favorire un afflusso di valuta estera che possa rimpolpare riserve valutarie ormai alla frutta. La conseguenza, secondo gli analisti di Barclays, sarà un’inflazione in crescita fino al 47% prima che i prezzi tornino a stabilizzarsi. La Russia è alle prese con una recessione (a fine novembre il Pil è calato del 4% rispetto a 12 mesi prima) che il tracollo delle quotazioni petrolifere, insieme alle sanzioni occidentali e alle spese per gli interventi militari in Ucraina e Siria, minacciano di rendere ogni giorno più pesante, dato che il governo, che ha basato le sue stime di bilancio sull’ipotesi di un prezzo medio del petrolio di 50 dollari al barile, deve tagliare in modo deciso la spesa pubblica per compensare la sempre minore capacità del Reserve Fund in cui affluiscono le rendite petrolifere (e che da inizio 2015 ha già visto il suo patrimonio ridursi del 30% a 59,35 miliardi, col rischio di esaurirsi completamente entro fine anno) di ripianare i crescenti deficit.
La guerra valutaria per ora è dunque una guerra tra poveri o tra “ex ricchi” veri o solo presunti, ma non va sottovalutata visto gli effetti che può contribuire a scatenare sui mercati. Anche per questo Pechino è intervenuta negli ultimi giorni con decisione sul mercato nel tentativo di chiudere il gap tra la quotazione “onshore” (ossia quella ufficiale usata per gli scambi all’interno della Cina) del renminbi e quella “offshore” (ossia il cambio di mercato utilizzato per gli scambi internazionali) vendendo dollari contro yuan sul mercato di Hong Kong. La mossa per il momento sembra aver posto un pavimento alla svalutazione della valuta cinese, ma non è bastata a rassicurare i mercati azionari cinesi (ed emergenti in particolare), che continuano nel progressivo calo, sgonfiando di fatto la bolla della sopravvalutazione in cui da anni si muovevano.
(Segue...)