Economia
In pensione più tardi con l'aumento dell'aspettativa di vita. Se vogliamo 'salvare' i giovani
Secondo i dati diffusi in questi giorni dall’Istat nel 2024 la speranza di vita ha raggiunto quota 83,4 anni, con un incremento di quasi 5 mesi rispetto al 2023

Il rischio di un cambio di regole è duplice: aggiungere incertezza a chi è vicino al momento della pensione; aggiungere forti dubbi sulla tenuta del sistema nel medio e lungo termine per i giovani lavoratori
Ci batte solo il Giappone. Sembriamo destinati a vivere sempre più a lungo, eppure non siamo contenti. Secondo i dati diffusi in questi giorni dall’Istat nel 2024 la speranza di vita ha raggiunto quota 83,4 anni, con un incremento di quasi 5 mesi rispetto al 2023. Solo il Giappone supera quota 84 anni. In realtà per chi è avanti con gli anni l’attesa di vita è ancora più lunga: raggiunti i 65 anni si vive mediamente altri 21,2 anni, il valore più alto dal 2019. Tutto bene, dunque. No. Un traguardo importante sotto il profilo sanitario, ma con effetti distorsivi sul sistema di welfare – visto che la natalità crolla, ci saranno sempre meno contribuenti attivi – a partire dal sistema previdenziale.
Più la vita si allunga, più tardi si dovrebbe andare in pensione. Il ragionamento è semplice: l’assegno di pensione non dovrebbe essere liquidato per un tempo superiore a quello “coperto” dalla contribuzione previdenziale. Altrimenti si finirebbe per erodere risorse alle generazioni future. Nel 2010 – prima della cosiddetta riforma Fornero - con il decreto legge n. 78, convertito nella legge n. 122/2010, fu previsto, dal successivo 1° gennaio 2013, il progressivo innalzamento dei requisiti per l’accesso alla pensione (di vecchiaia e anticipata). L’obiettivo era chiaro - ancora prima che suonasse la campanella di Bruxelles, nell’estate del 2011 – e rispondeva alla necessità di sterilizzare gli effetti dell’allungamento della vita media della popolazione sui conti della previdenza.
L’idea di introdurre un meccanismo stabile, automatico, doveva fornire certezze ai lavoratori, assicurando risposte sicure alle domande inevitabili: quando vado in pensione, quanto potrò disporre come assegno previdenziale? Era il momento di sottrarre la pensione al dibattito politico, restituendola all’effettiva necessità di chi doveva progettare il proprio futuro, dopo il lavoro.
Inutile ripercorrere la storia delle quote, degli scalini o degli scaloni, fino alle deroghe per gli esodati: una giungla che ha solo contribuito a fornire incertezze, sventolando bandiere di parte e di partito, con l’obiettivo (spesso fallito) di ottenere vantaggi elettorali e di consenso sociale.
Gli ultimi dati Istat sull’aumento dell’aspettativa di vita, dunque, in base alla normativa vigente, dovrebbero produrre un effetto sgradito ai molti lavoratori in procinto di concludere la loro attività lavorativa: dal 2027 si dovrebbe andare in pensione tre mesi più tardi. Servirebbero 67 anni e 3 mesi di età per la pensione di vecchiaia e 43 anni e 1 mese di contributi per quella anticipata (42 anni e 1 mese per le donne). Il Governo ha già fatto sapere che non sarà così. Il sottosegretario al ministero del lavoro, Claudio Durigon ha detto: “Come Governo ci impegniamo a sterilizzare l’aumento dell’età pensionabile nel 2027 nonostante l’aumento dell’aspettativa di vita. Continueremo a lavorare per tutelare i lavoratori e garantire la sostenibilità del sistema previdenziale”.
Siamo in linea con quanto anticipato qualche tempo fa dal titolare del Mef, Giancarlo Giorgetti. Ma siamo in linea con quello di cui ha bisogno il lavoratore in vista del periodo di quiescenza? E siamo in linea con le necessità complessive del sistema previdenziale, che deve assicurare la pensione non solo al figlio, ma anche al nipote del “pensionando” di turno? Il Governo ha tracciato un percorso, o si è preoccupato solo di non perdere consensi?
Vogliamo sperare che non si tratti solo della “necessità” di contrastare le informazioni diffuse dalla Cgil, che si è premurata di far sapere che “44.000 lavoratori, che hanno aderito negli ultimi anni a misure di uscita anticipata, per effetto dell’adeguamento automatico dei requisiti pensionistici alla speranza di vita rischiano di ritrovarsi dal 1° gennaio 2027 senza reddito e senza contribuzione”. Ammesso che il conto sia giusto – lo vorremmo avere dal ministero del Lavoro – il blocco dell’aumento dell’età pensionabile riguarderebbe solo i lavoratori in questa particolare condizione, o tutti? E se tutti, perché? Un conto è sanare una situazione, un conto è cambiare le regole. Il rischio di un cambio di regole è duplice: aggiungere incertezza a chi è vicino al momento della pensione; aggiungere forti dubbi sulla tenuta del sistema nel medio e lungo termine per i giovani lavoratori, che sembrano costantemente dimenticati dal dibattito sulle pensioni.
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