Economia
Tavares, il Ceo che ha trasformato Stellantis in “bella senz’anima”. Conti a posto, ma manca l’italianità
Il top manager lascia un’azienda che sì, può vantare un bilancio stabile, ma è un’azienda che ha perso le sue radici
Stellantis, così Tavares ha trasformato il leader italiano dell'automotive in una multinazionale senz'anima
Carlos Tavares ha annunciato l’uscita di scena dal 2026, ma più che un addio, il suo è un segnale d’allarme. Certo, lascerà dietro di sé una Stellantis in salute finanziaria, con numeri che fanno sorridere gli investitori. Ma se guardiamo oltre, cosa ha realmente lasciato al territorio, ai marchi storici, ai lavoratori italiani? Ben poco. La sua è stata una gestione spietata, guidata dalla logica del taglio a tutti i costi, dove il profitto ha schiacciato le persone, i valori e, diciamolo pure, un intero pezzo di Italia.
Sergio Marchionne, al contrario, si è battuto per costruire, per trasformare Fiat in un simbolo non solo industriale, ma anche culturale. Certo, non era tenero con i sindacati, ma riconosceva il ruolo della manodopera italiana, l’importanza di mantenere posti di lavoro in un Paese che storicamente aveva fatto dell’automobile una bandiera. La sua fusione con Chrysler non fu solo una strategia, fu un’operazione con una visione: portare il “made in Italy” nel mondo, mantenendo le radici ben piantate in casa.
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Con Tavares, invece, Stellantis si è trasformata in una macchina senz’anima. L’Italia è diventata un mercato di serie B, e gli stabilimenti italiani una linea di produzione da rivedere, ridimensionare, fino a chiudere. Chiudere: è questa la parola che ha risuonato fin troppo spesso sotto la sua gestione. Gli stabilimenti sono stati messi sotto la scure della cassa integrazione e dei licenziamenti, uno dopo l’altro, senza troppi scrupoli. E i lavoratori? Costretti a fare i conti con l’incertezza, lasciati in balìa di un CEO più interessato a rassicurare gli azionisti che a proteggere chi, giorno dopo giorno, manda avanti la produzione.
A colpire è anche la brutalità con cui Tavares ha affrontato la questione della transizione elettrica. Un percorso necessario, sì, ma affrontato in modo quasi autoritario. Ha imposto tempi e modalità senza preoccuparsi delle ripercussioni, come se i lavoratori fossero pezzi intercambiabili di una catena di montaggio globale. Ha chiuso gli occhi sulle difficoltà degli operai, sui costi sociali dei suoi tagli. E così, Stellantis è finita per diventare un gigante con il bilancio in ordine, ma con le persone – quelle che lavorano realmente sul campo – sempre più in affanno.
Marchionne sapeva mediare; non era certo un santo, ma almeno sapeva guardare negli occhi i lavoratori e offrire prospettive concrete, senza gettare stabilimenti interi nel tritacarne della cassa integrazione. Tavares, invece, ha preferito la strada della forza, della chiusura, del “prendere o lasciare”. Per lui, ogni stabilimento chiuso è solo una voce in meno nei costi. Ma per l’Italia, significa famiglie in difficoltà, comunità che si spopolano, territori che perdono posti di lavoro e, con essi, la speranza di un futuro.
E adesso? Tavares lascia un’azienda che sì, può vantare un bilancio stabile, ma è un’azienda che ha perso le sue radici. Stellantis non rappresenta più un simbolo italiano, è diventata una multinazionale anonima, che risponde solo ai dettami del mercato e degli azionisti. Quando un’impresa abbandona i suoi territori, abbandona anche la sua identità. I marchi italiani come Alfa Romeo, Lancia, Maserati sono ridotti a mere pedine in una strategia che guarda ovunque tranne che a casa nostra.
La vera sfida, ora, sarà ricostruire ciò che Tavares ha distrutto. L’Italia non può permettersi di perdere pezzi così importanti del proprio patrimonio industriale. È tempo che qualcuno raccolga il testimone e riporti Stellantis a investire seriamente nei suoi stabilimenti italiani, nei suoi lavoratori, nella sua storia. Perché le aziende possono cambiare nome e strategia, ma la dignità di un Paese non è negoziabile.