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Economia
Tesla, stop alle pressioni di Wall Street. Ecco perché Musk pensa al delisting

“Sto valutando di delistare Tesla a 420 dollari per azione, il finanziamento è già assicurato”: è bastato questo tweet da parte di Elon Musk per scatenare la bagarre attorno al titolo, che a Wall Street ha poi chiuso la giornata in rialzo dell’11% a 379,57 dollari per azione.

Del resto se Musk farà sul serio, lanciando un’operazione da oltre 50 miliardi di dollari, chiunque comprasse un’azione Tesla per poi cederla durante l’Opa finalizzata al delisting guadagnerebbe anche a questi prezzi un ulteriore 10,5%. In successivi tweet Musk si è augurato che “tutti gli attuali investitori rimangano con Tesla anche se saremo delistati. Creerebbe un fondo speciale che consentirà a chiunque di stare con Tesla. Lo stiamo già facendo con l’investimento di Fidelity in SpaceX”, per cui gli attuali azionisti “potranno vendere i titoli a 420 dollari l’uno o mantenerli” e restare soci di una società non quotata che alla fine dello scorso trimestre aveva in cassa 2,2 miliardi di dollari (il minimo dal primo trimestre 2016) e dovrà dunque ricorrere a finanziatori per realizzare l’operazione preannunciata da Mask.

Da notare che Tesla debuttò nel 2010 a Wall Street offrendo 13,3 milioni di azioni al prezzo di soli 17 dollari, sedici mesi dopo aver venduto la sua prima auto elettrica (una Tesla Roadster) e che a 420 dollari per azione il produttore di auto elettriche, che finora non ha guadagnato un centesimo bruciando anzi miliardi di dollari, sarebbe valutato 82 miliardi di dollari, quasi quanto la somma delle capitalizzazioni di General Motors e Ford.

A chi gli chiedeva di prevedere “una disposizione per gli investitori retail che hanno detenuto azioni Tesla prima del 31 dicembre 2016 affinchè tali azioni vengano convertite in azioni private della nuova società privata” visto che questa sarebbe “la sola cosa giusta da fare”, Musk ha anche risposto: “Assolutamente. Sono molto grato agli azionisti di Tesla e garantirò la loro prosperità in qualsiasi scenario”.

Ma se, a differenza di alcuni delisting “opportunistici” che negli anni si sono visti in alcuni mercati tra cui quello italiano, Musk non delista il titolo per approfittare di quotazioni depressi (il guadagno per chi avesse investito nell’Ipo e mantenuto i titoli in questi otto anni è infatti di oltre 21 volte il capitale iniziale), perché lo fa proprio ora che dopo anni di continue perdite Tesla sembra prossima a svoltare?

Presentando i dati dell’ultima trimestrale la scorsa settimana Musk aveva già ribadito che non gli servivano ulteriori capitali nonostante il previsto investimento da 5 miliardi di dollari per realizzare un nuovo impianto produttivo fuori Shanghai (per il quale del resto sarebbero già al lavoro almeno quattro grandi banche cinesi a controllo statale) e che da qui a fine anno prevede di chiudere in utile e con flussi di cassa positivientrambi i trimestri.

Un annuncio che se da una parte ha rincuorato i fan di Musk dall’altra non sembra aver smosso i suoi detrattori che hanno sottolineato l’ennesimo rinvio del raggiungimento del punto di pareggio. Critiche che a Musk hanno sempre dato fastidio e proprio il desiderio di tacitare la “propaganda negativa a breve termine” e rendere Tesla “una società molto più agevole da gestire e meno disruptive” sono stati citati da Musk come determinanti del suo annuncio, che ora dovrà essere seguito dai fatti per evitare di incorrere in sanzioni da parte della Sec. Tra l’altro il tweet di Musk è giunto circa mezzora dopo l’annuncio dell’ingresso tra i soci di Tesla del fondo sovrano dell’Arabia Saudita con una partecipazione da 2 miliardi di dollari, partecipazione che l’annuncio di Musk ha già fatto lievitare di valore.

Col suo comportamento “irrituale” che ricorda molto quello del presidente Donald Trump, a sua volta affezionato ai proclami tramite Twitter, il 47enne Musk ha accentuato la volatilità su un titolo già volatile di suo. Eppure in una mail ai propri dipendenti l’imprenditore ha ribadito di voler “creare un ambiente in cui Tesla possa operare al meglio”, sottolineando come le attuali oscillazioni delle quotazioni di borsa sono “una grande distrazione” per i dipendenti, che sono tutti anche azionisti di Tesla, mentre essere una società quotata “crea un’enorme pressione su Tesla per prendere decisioni che potrebbero essere giuste per un dato trimestre, ma non necessariamente giuste per il lungo termine”.

Gli analisti, tuttavia, non si spiegano come Musk potrà ripagare gli oltre 50 miliardi di dollari necessari a portare a termine quella che sarebbe il più grande leverage buyout della storia: con simili operazioni un’azienda si indebita per poi ripagare il debito coi propri profitti o successive cessioni di asset non strategici, ma Tesla non pare ad oggi in grado di garantire né gli uni né le altre.

Anche il ricorso a “junk bond” sembra improbabile, visto che l’unico bond finora emesso su tale mercato, lo scorso anno, ha visto le quotazioni cadere sotto la pari subito dopo il collocamento e da allora non è più risalita oltre (ieri ha chiuso a 92,4 centesimi per ogni dollaro di valore nominale, mentre se il delisting andasse in porto i sottoscrittori verrebbero rimborsati a 1,01 dollari per ogni dollaro di valore nominale).

Insomma: dal punto di vista di Musk delistare Tesla e farla tornare una società interamente privata ha molto senso, ma il mercato non è ancora convinto che l’operazione possa andare in porto, assegnando circa un 30% di probabilità all’operazione. Chissà cosa ne penserà al riguardo la Sec e se non aprirà un’indagine per valutare eventuali manipolazioni, volontarie o meno, dei prezzi di borsa.

Luca Spoldi

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