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Economia
Web tax, il gioco delle tre carte

Invito formalmente il governo a rimediare al grave errore commesso questa notte dando parere favorevole all’emendamento sulla web tax, presentato dal relatore alla Camera. La norma colpisce in modo pesantissimo le imprese italiane del web dimezzando l’onere a carico delle multinazionali digitali, ammesso che a queste venga in concreto applicata l’imposta. Temo che, fidandosi del parere del governo, la commissione Bilancio della Camera non si sia accorta del gioco delle tre carte che le è stato somministrato a partire dall’interpretazione superficiale della relazione tecnica, che indica un gettito di 190 milioni invece dei 114 stimati per la norma approvata dal Senato.

La base informativa in entrambi i casi è il rapporto Assinform, ma per il Senato è stato usato il rapporto di marzo, mentre per la Camera quello di dicembre. Inoltre, per la Camera sono state eseguite proiezioni sugli andamenti futuri delle attività digitali al tasso dell’8% annuo che non erano state considerate nelle stime fatte per il Senato. Di più: per gonfiare la base imponibile, si sono inseriti i ricavi di attività digitali quali la Data Analytics, il Cloud Computing e i Sistemi di integrazione ICT. In tal modo, si è triplicato il contributo che deriva dai dati Agcom sulla pubblicità on line quando al Senato lo si era soltanto raddoppiato. Ma tali integrazioni potevano essere fatte tranquillamente anche nella relazione tecnica per il Senato.

Non dimentichiamo che, in entrambe le versioni, la norma primaria non definisce quali attività specifiche verranno sottoposte alla web tax delegandone l’individuazione a un decreto ministeriale. Morale: così gonfiata, la base imponibile è salita a 6,3 miliardi quando prima era stata indicata in 3,8 miliardi. E così è stato possibile fare il “miracolo”: dimezzare l’aliquota e aumentare il gettito. Mi sarei aspettato che il governo spiegasse meglio il giochetto, chiarendo che, ceteris paribus, e cioè con la stessa base imponibile, la norma del Senato avrebbe dato anch’essa 190 milioni.

Basterebbe infatti applicare l’aliquota del 6% a 6,3 miliardi e togliere la metà del gettito potenziale che, secondo la metodologia della relazione tecnica a suo tempo presentata al Senato, sarebbe venuta meno a causa del credito d’imposta opportunamente riconosciuto alle imprese web italiane. Applicando l’aliquota del 3% ma scaricandola sulle imprese web italiane si arriva sempre a 190 milioni. Un Paese serio non può accettare simili prese in giro.

Non mi dilungo sulle altre, gravi debolezze dell’emendamento approvato nella notte alla Camera. Ma non posso non segnalare la soppressione delle norme che rafforzavano le attività di accertamento dell’Agenzia delle entrate ai fini della scoperta delle stabili organizzazioni occulte e l’incertezza totale sull’effettiva riscossione dell’imposta dalle imprese estere. L’emendamento, infatti, affida alla notoria buona volontà delle imprese prestatrici dei servizi, basate a Dublino e a Lussemburgo, il compito di versarla ove, spontaneamente, dichiarino di superare le 3 mila operazioni all’anno. Se non lo faranno, chi mai e come accerterà l’evasione, in quali tempi, con quali costi? Quanto alla protezione che deriverebbe alle start up dalla soglia delle 3 mila operazioni annue, noto che manca ogni riferimento al corrispondente fatturato rendendo la medesima soglia monca e distorsiva.

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