Esteri
Cina-Lega Araba, Taiwan-Dalai Lama, Kim Jong-un condannato: pillole asiatiche
I legami tra Pechino e i paesi arabi, Riyad compresa, ribaditi in un summit. A Taipei vogliono la visita del Dalai Lama. Un tribunale sudocoreano condanna Kim
CINA-LEGA ARABA - I rapporti tra Cina e paesi arabi sono in costante miglioramento da tempo. Trend ribadito durante il nono summit tra Pechino e i rappresentanti della Lega Araba andato in scena lunedì. La pandemia sembra aver intensificato la partnership tra il gigante asiatico e una buona parte degli stati di Medio Oriente, Maghreb e Africa nord orientale. All'inizio dell'epidemia, paesi come Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno illuminato coi colori della bandiera cinese i propri monumenti, mentre Pechino ha inviato numerosi aiuti nei paesi arabi quando l'epicentro del coronavirus si è spostato da Wuhan. Hanno partecipato Wang Yi, ministro degli esteri cinese, e i rappresentanti delle diplomazie dei paesi della Lega Araba, che in totale ne comprende 22: dagli Emirati Arabi Uniti all'Egitto, dal Sudan alla Mauritania, andando da est a ovest della mappa. Il meeting ha generato tre documenti: una dichiarazione congiunta di solidarietà e cooperazione anti Covid-19, una dichiarazione di sostegno reciproco alla costruzione di una comunità dal futuro condiviso (refrain molto caro al Partito comunista cinese) e a un piano d'azione di collaborazione pratica per il prossimo biennio. Significativi gli interventi dei rappresentanti di due paesi chiave, per motivi diversi, dell'area. Il ministro degli esteri dell'Arabia Saudita, il principe Faisal bin Fahran, dopo aver auspicato un approfondimento della cooperazione bilaterale ha espresso il suo supporto alla "sovranità cinese, alla sua integrità territoriale al principio dell'unica Cina". Dichiarazione di rito ma che appare significativa (anche se aggiunta all'opposizione alle "interferenze straniere") in un momento nel quale è appena entrata in vigore la tanto criticata in occidente legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong. Non ci si può dimenticare che Riyad è un tradizionale partner degli Stati Uniti nell'area, ma negli anni la Cina è diventato il principale partner commerciale del paese, con il 13% dell'export saudita e il 15% dell'import. Numeri importanti che riguardano anche settori strategici, ottenuti nonostante lo storico legame tra Pechino e Iran, rivale regionale dell'Arabia Saudita. Molto esplicito nel suo sostegno a Pechino anche Mahmouf Ali Youssouf, il rappresentante diplomatico del Gibuti, dove la Cina ha aperto la sua prima e finora unica (almeno ufficialmente) base militare all'estero.
DALAI LAMA-TAIWAN - Ieri abbiamo raccontato della dichiarazione del Dalai Lama su una ipotetica visita a Taiwan, che a dire la verità era parsa più un auspicio che un programma. Ebbene, a Taipei se ne sta parlando molto. Anche perché è subito diventato un tema politico. La portavoce del ministero degli esteri, Joanne Ou aveva detto che "se il Dalai Lama ne farà richiesta, il governo taiwanese gli darà il benvenuto in accordo con i principi di rispetto reciproco e accoglienza, in un momento proficuo per entrambe le parti". Più proattivo Freddy Lim, deputato indipendente, il quale ha detto di aver rilanciato il gruppo parlamentare Taiwan for Tibet e sta esortando il governo a supportare in maniera inequivocabile l'idea di una visita del Dalai Lama. In una conferenza stampa, Lim ha detto che avrebbe raccolto il favore di 46 deputati di diversi partiti. I nomi che sono stati diffusi fanno parte del Democratic Progressive Party (DPP), la forza di maggioranza, il Taiwan Statebuilding Party e il New Power Party, entrambi su posizioni indipendentiste. Non c'è nessuno, invece, del Kuomintang (KMT), storicamente considerato come unico interlocutore politico di Pechino sull'isola. Il Dalai Lama è già stato a Taiwan nel 1997, nel 2001 e nel 2009 ma non è più tornato da quando il presidente cinese è Xi Jinping.
KIM JONG-UN CONDANNATO - Kim Jong-un condannato a risarcire 21 milioni di won (circa 17 mila e 600 dollari) a due ex prigionieri di guerra sudcoreani che sarebbero stati tenuti ai lavori forzati in Corea del nord. La sentenza è stata emessa dal Tribunale del distretto centrale di Seul (la capitale sudcoreana ha cinque corti distrettuali suddivise per i punti cardinali della città). I due protagonisti della vicenda sono due uomini rispettivamente di 90 e 87 anni fatti prigionieri durante la guerra di Corea del 1950-1953 e che sostengono di essere per decenni ai lavori forzati di carbone anche dopo la fine del conflitto. Riuscirono entrambi a fuggire solo nel 2000, passando per la Cina. Hanno presentato una denuncia nel 2016, ritenendo di aver subito "importanti danni mentali e fisici". Per la prima volta un tribunale sudcoreano emette una sentenza con (ipotetico) effetto su Pyongyang, che ha sempre sostenuto di non aver tenuto prigioniero alcun militare del sud o comunque di non aver trattenuto nessuno contro la propria volontà dopo la fine della guerra. I giudici hanno coinvolto Kim in quanto prosecutore della linea di potere che controlla la Corea del nord da decenni. Dopo la sentenza, un gruppo di attivisti sudcoreani ha manifestato l'intenzione di chiedere legalmente la confisca di beni nordcoreani nel sud della penisola.