Esteri
Cina, non solo lo scontro con gli Usa: i guai con India, Giappone e Australia
La pandemia rilancia la Via della Seta nel sud est ma acuisce i problemi coi grandi vicini dell'Asia Pacifico
Gli Stati Uniti, certo. Ma la Cina ha qualche noia diplomatica anche più vicina. Giappone, India, Vietnam e Australia sono tutte coinvolte in maniera più o meno diretta in dispute con Pechino. E se nei rapporti bilaterali l'Impero Celeste può sempre far valere il suo maggiore peso in termini economici e geopolitici, mettere insieme tutti questi nodi può far sì che si crei un groviglio quasi inestricabile proprio sull'uscio di casa.
COREE PIU' VICINE
Sarebbe sbagliato dire che la pandemia da coronavirus ha pregiudicato la diplomazia cinese in Asia. Anzi, in alcuni casi è vero il contrario. Con la Corea del Sud i rapporti sono in costante miglioramento: Moon Jae-in, il cui partito ha appena stravinto le elezioni legislative dello scorso 15 aprile, è un fautore del consolidamento dei rapporti con Pechino, anche e soprattutto nell'ottica Pyongyang. Con la "ritirata" americana dall'Asia orientale, al di là delle scenografiche camminate di Donald Trump nella zona demilitarizzata, appare ormai evidente a Seoul che per andare verso una normalizzazione dei rapporti con la Corea del Nord bisogna rivolgersi a Xi Jinping. E la cooperazione sanitaria da Covid-19 dimostra che i due governi intrattengono un costante dialogo.
NUOVO IMPULSO ALLA VIA DELLA SETA NEL SUD EST
La Via della Seta non ha subito particolari rallentamenti, anche perché coi paesi che ne fanno parte di problemi diplomatici, almeno per il momento, non ce ne sono. Nelle scorse settimane sono ripartiti i lavori della linea ferroviaria tra Cina e Laos, un progetto colossale che avrebbe come suo termine finale Singapore, dopo essere passata anche per la Thailandia. Il primo ministro della Cambogia, Hun Sen, si è recato in piena epidemia a Pechino per mostrare la sua vicinanza politica al grande vicino. Numerosi contatti istituzionali con le Filippine, che con Rodrigo Duterte hanno intrapreso una linea più amichevole verso Pechino (anche se proprio negli ultimi giorni si è registrato un riavvicinamento per certi versi storico tra Manila e Hanoi per risolvere le dispute marittime). Rafforzate le relazioni anche con Myanmar. Negli scorsi giorni Xi ha parlato al telefono con il presidente birmano U Wint Myint e la cooperazione prosegue anche sul piano militare nelle movimentate zone di confine.
LE AMBIZIONI MARITTIME E COMMERCIALI DEL VIETNAM
Per ogni rosa però c'è anche una spina. A creare qualche pensiero a Pechino c'è il Vietnam. Hanoi ha saputo contenere in modo molto efficace il coronavirus, tanto da non registrare nemmeno un decesso ufficiale. E, nonostante sui media occidentali se ne sia parlato molto meno, ha anch'esso lanciato una piccola campagna diplomatica di aiuti sanitari, con l'invio di mascherine anche verso l'Italia. Il Vietnam è stato uno dei primi paesi al mondo, insieme all'Italia, a chiudere i collegamenti aerei diretti con la Cina, e vive un momento di tensione con Pechino. Attriti presenti da diversi decenni e che ruotano intorno alle acque e isole contese nel Mar cinese meridionale. Il governo vietnamita, come raccontato di recente da Tommaso Magrini su Il Manifesto, ha rigettato il divieto di pesca imposto dal 1° maggio al 16 agosto dalla Cina nell'area delle isole Paracelso e ha invitato i suoi pescatori a ignorarlo e proseguire le attività. Tale assertività deriva in parte anche dalla presidenza di turno dell'Asean, che appare invece ancora in larga parte spaccato sull'approccio da prendere nei confronti dell'estroversione cinese, con tanti paesi consapevoli del legame economico che non può essere spezzato senza gravi conseguenze, soprattutto in un'epoca post Covid dove la direzione intrapresa sembra essere quella di una slowbalisation regionalizzata. Il Vietnam spera in realtà di diventare quello che in parte è già, un grande hub commerciale dell'area del Sud Est. Anche grazie alle delocalizzazioni dalla Cina. Obiettivo che potrebbe essere favorito dalle politiche del Giappone.
IL COVID-19 RALLENTA LA DIPLOMAZIA PECHINO-TOKYO
I rapporti tra Pechino e Tokyo hanno subito un improvviso rallentamento a causa della pandemia, anche perché il governo di Abe Shinzo ha dimostrato di avere velleità geopolitiche sconosciute, per esempio, alla Corea del Sud. Il Covid-19 ha portato al rinvio della visita programmata di Xi nella capitale nipponica, in quella che sarebbe dovuta diventare una celebrazione del grande riavvicinamento tra i due colossi dell'Asia orientale. Così non è andata, e per ora non c'è ancora una nuova data per l'evento, mentre sul fronte interno cresce il fronte di chi vi guarda con perplessità. Il governo Abe ha avviato una aggressiva politica di "China exit", con pacchetti di stimoli dedicati alle imprese per sostenerne il "ritorno a casa" o comunque la delocalizzazione in altri paesi asiatici. L’obiettivo dichiarato è quello di avere una maggiore autosufficienza sia in campo sanitario sia in campo tecnologico, anche per evitare eventuali nuove restrizioni di Washington sui prodotti made in China.
TRA SENKAKU E FIVE EYES
Ma con il Giappone le contese sono anche strategiche. C'è sempre il nodo irrisolto delle isole Senkaku (o Diaoyu come le chiamano in Cina), con le rispettive navi che si sono incrociate nelle acque limitrofe nelle scorse settimane. Senza dimenticare il progressivo avvicinamento dei servizi segreti nipponici al Five Eyes, l'unione delle intelligence anglofone. Operazione condotta, ufficialmente, per avere informazioni sulla Corea del Nord e contenere Pyongyang con maggiore efficacia. Ma in realtà, secondo alcune fonti riportate di recente dal South China Morning Post, le discussioni riguarderebbero anche la Cina. E Tokyo, che ha più volte citato Taiwan chiedendone l'inclusione nell'assemblea Oms, ha chiesto chiarimenti all'ambasciatore cinese dopo l'annuncio della volontà di approvare una legge di sicurezza nazionale per Hong Kong.
TENSIONI AL CONFINE CON L'INDIA
Chi di sicuro ha contese territoriali irrisolte con Pechino è l'India, l'altro colosso asiatico. Nuova Delhi rappresenta, sin dall'inizio, uno scoglio al progetto della Belt and Road di Xi. Inassimilabile e storicamente impossibile da sinizzare, l'India rappresenta un ostacolo da aggirare, come dimostra la strategia cinese sul porto pakistano di Gwadar. Pechino e Nuova Delhi condividono un lungo e frastagliato confine che dal Sikkim arriva al Jammu e Kashmir passando per l'Himachal Pradesh. E che tocca sempre l'immenso territorio della regione autonoma del Tibet. È lungo questa frontiera montuosa che nelle scorse settimane si sono verificati diversi scontri tra truppe militari. Non a fuoco, per fortuna, ma a colpi di pugni e sassate. Con un bilancio provvisorio di 11 feriti ma soprattutto di tanta, tantissima tensione, in particolare al Pangong Tso, strategico lago dalla forma allungata che dal sud della città indiana di Ladakh arriva a lambire la principale arteria stradale tibetana. È qui che Nuova Delhi guarda con sospetto ai movimenti cinesi. Mentre dall'altra parte non hanno apprezzato la recente costruzione di una nuova strada al confine con il Nepal.
LA DIFFICILE AUTOSUFFICIENZA INDIANA
Il tema è molto sentito, tanto che anche la Casa Bianca è intervenuta schierandosi, ça va sans dire, con l'India. Nel frattempo, il primo ministro Narendra Modi ha presentato un piano economico per la ripresa che intende stimolare la produzione locale e limitare la dipendenza dalla Cina per le catene di approvvigionamento. Impresa non semplice, se si considera che, come ha sottolineato Tommaso Magrini su Il Manifesto, il 90% dell’import dei farmaci salvavita arriva da lì, così come l’80% dell’equipaggiamento medico e il 30% delle componenti per auto. Dipendenza che si riscontra anche in tanti altri settori. Da aggiungere qualche motivo di frizione diplomatica con New Delhi, anche l'appoggio esplicito a Taiwan dato da alcuni politici del Bjp, con il Times of India e l'Economic Times (due tra i principali quotidiani indiani) che hanno chiesto al governo passi del governo per l'inclusione di Taipei all'assemblea dell'Oms.
Una nave cinese nel Pacifico
LA GUERRA COMMERCIALE CON L'AUSTRALIA
Ma c'è anche chi rischia di sprofondare, o forse è già sprofondato, in una vera e propria guerra commerciale con la Cina. Si tratta dell'Australia, tra i primi paesi a chiedere un’indagine internazionale sulle origini del Covid-19. Mossa non gradita al governo cinese, che ha imposto tariffe dell’80,5% sull’import di orzo (già crollato da 1.7 miliardi di dollari a 600 milioni tra 2018 e 2019), e sospeso quello di carne di manzo. Ma si starebbe pensando anche di disincentivare l'import di pesce, vino e latte. L’ambasciatore Cheng Jingye ha paventato anche un boicottaggio di turisti, studenti e consumatori. Contromisure che possono fare male, se si considera che Pechino è di gran lunga il primo partner commerciale per l’Australia, dove gli studenti e turisti cinesi rappresentano il 38% e il 15% del totale. Lo scontro è proseguito anche dopo l'assemblea dell'Organizzazione mondiale della sanità, durante la quale oltre 100 paesi hanno chiesto un'indagine internazionale sull'origine del virus e la Cina ha aperto a un'inchiesta a guida Oms a crisi terminata, ridicolizzando poi Canberra che rivendicava il risultato. Eppure il coinvolgimento, per ora solo "nominale", dello stato del Victoria nella Belt and Road ha creato delle frizioni con Washington, tanto che Mike Pompeo ha detto che potrebbe essere a rischio la condivisione di alcune informazioni sensibili con l'Australia se la partnership si concretizzasse.
LE MIRE CINESI NEL PACIFICO
A peggiorare i rapporti, le recenti esercitazioni congiunte tra i militari americani e australiani nel Mar cinese meridionale, mentre il governo di Scott Morrison guarda con sospetto al tentativo di China Mobile di comprare Digicel, il principale network telefonico degli stati del Pacifico. Una situazione che ricorda un po' quella di qualche anno fa sui cavi sottomarini alle Isole Salomone. Allora l'Australia ebbe la forza di rilanciare l'offerta cinese, senza comunque evitare il recente passaggio diplomatico di Honiara dalla parte di Pechino e la rottura dei rapporti con Taiwan. Passo compiuto subito dopo anche da Kiribati, arcipelago di cui l'isola Christmas dista solo poco più di duemila chilometri da Honolulu, sede del Pacific Command degli Stati Uniti. E qui si completa il giro, arrivando fin quasi sull'uscio di casa dell'altra superpotenza.