Esteri
Coronavirus e quarantena: pretesti per calpestare i diritti Lgbt+ nel mondo
Mentre il lockdown aumenta l’isolamento di persone già emarginate, alcuni governi usano l'emergenza sanitaria come scusa per limitare i diritti civili
L’omofobia è diventata un’emergenza nell’emergenza. Mentre la quarantena spesso aumenta l’isolamento di persone già emarginate, numerosi governi in tutto il mondo sembrano sfruttare le restrizioni dovute al coronavirus per discriminare ulteriormente le comunità Lgbt+.
Da chi chiede pieni poteri per gestire la pandemia e poi legifera contro i diritti civili, a chi vuole nascondere la propria incapacità gestionale mettendo alla gogna una minoranza pur di offrire un capro espiatorio alla popolazione, la situazione si è fatta preoccupante un po’ ovunque.
Diritti Lgbt+ in Asia
In Corea del Sud l’omosessualità non è illegale, eppure il conservatorismo imperante ha fatto sì che negli scorsi giorni partisse una “caccia all’untore” che ha gettato nel panico i frequentatori di Itaewon, la zona gay-friendly della capitale Seul. Un ragazzo asintomatico è risultato positivo al contagio dopo aver frequentato tre bar di quel quartiere, così le autorità hanno costretto tutti i locali della zona, le compagnie telefoniche e delle carte di credito a fornire dati e contatti dei frequentatori di quell’area.
I nominativi raccolti sono stati più di 5000 e alcuni sono stati diffusi da Kookim Ilbo, un giornale locale collegato alla chiesa evangelica, insieme ai relativi dati personali. Altre testate hanno seguito l’esempio, condannando centinaia di persone alla gogna sociale e alla probabile perdita del lavoro, dato che l’omosessualità è malvista e non esistono leggi contro la discriminazione di orientamento sessuale. Molti si rifiutano di rispondere al censimento e di fare i test proprio per evitare che la loro identità venga rivelata. Insomma, un outing di massa che può costare caro anche alla salute di molti.
Nelle Filippine, a inizio aprile, alcune persone scoperte in strada in violazione del coprifuoco (impostato alle ore 20 per limitare il contagio) sono state costrette da Christopher Bombing Punzalan, governatore del distretto di Pandacaqui, a subire umiliazioni e insulti omofobi, documentati con un video che ha poi postato sui social.
Nei giorni successivi il governatore si è scusato e ha cancellato il video, ma Amnesty International Filippine sostiene che non sia un caso isolato, riportando numerose testimonianze di persone Lgbt+ che dall’inizio della quarantena, per aver violato il coprifuoco, sono state sottoposte ad abusi, come bastonate, rinchiuse in gabbie per cani o sottoposte a umiliazioni sessuali.
Transgender in India per la festa Koovagam
In India la situazione è ambivalente. L’omosessualità è stata depenalizzata nel 2018, e se anche la cultura hijra, cioè transgender, è molto popolare e l’atteggiamento delle autorità è favorevole, il comportamento di parte della popolazione rimane di chiusura e rifiuto.
Da una parte c’è l’esempio del Kerala, il cui governo si è premurato di far arrivare alle persone transgender in difficoltà durante il lockdown gli aiuti alimentari gratuiti. Dall’altra c’è quello del Telangana, nel cui capoluogo sono stati affissi, da ignoti, manifesti che accusano gli hijra di essere untori, e invitano a cacciarli, picchiarli e denunciarli per fermare il contagio.
L’omosessualità in Africa
Peggio va in Africa, dove molti paesi considerano l’omosessualità un reato punibile duramente. In Uganda, uno degli stati al mondo più repressivi in tema, dove le pene per una relazione tra persone dello stesso sesso arrivano alla detenzione a vita, gli attivisti Lgbt+, spesso costretti a vivere in clandestinità, denunciano che lo stato sta strumentalizzando l’emergenza coronavirus per compiere arresti indiscriminati, oltre a non garantire protezione e cure agli emarginati.
In Ghana, la più importante organizzazione sunnita ha diramato già a marzo un comunicato ufficiale per chiedere la protezione divina da una pandemia originata dai “peccati contro il mondo, in particolare gli atti più abominevoli come omosessualità, lesbismo, transgenderismo, distruzione di bacini idrici e foreste”.
Ugualmente, in Sudafrica un reverendo non nuovo a manifestazioni pubbliche di omofobia, Oscar Bougardt, ha dichiarato che la “pestilenza chiamata Covid-19 è l’ira di Dio su questo mondo malvagio. I nostri governi sono malvagi, disturbano l’ordine di Dio consentendo e legalizzando i matrimoni dello stesso sesso e l’omosessualità”.
In Marocco la “caccia alle streghe” è partita settimane fa, slegata dall’emergenza sanitaria, quando un’influencer molto seguita ha chiesto ai suoi follower di iscriversi sotto falso nome ad alcune app di incontri gay per smascherare gli uomini che le usano.
In un paese in cui l’omosessualità è punita con la reclusione fino a tre anni e una multa salata, le conseguenze immediate per le vittime sono state devastanti, aggravate poi quando il paese è stato di fatto militarizzato per far fronte alla pandemia: a causa della quarantena, molti uomini sono stati costretti a convivere con i propri aguzzini, sottoposti a minacce, ricatti, denunce, oppure, a causa dell’outing forzato, sono stati ripudiati dalle famiglie e non hanno più un posto dove abitare al sicuro.
La Turchia, invece, ufficialmente considera legale l’omosessualità, che però, nei fatti, è ancora bollata dallo stigma sociale dell’amoralità e della depravazione, ed è pubblicamente osteggiata dalle istituzioni amministrative e religiose.
L’ultima azione in questo senso è stata compiuta dal governo che, tramite il ministro dell’Istruzione, ha chiesto ai bambini della nazione di smettere di disegnare gli arcobaleni, simbolo internazionale di speranza in questo momento di emergenza sanitaria, ma secondo Recep Tayyip Erdoğan, che governa il paese, pericoloso strumento di “conversione all’omosessualità” per i più piccoli.
La questione è nata dopo che il museo d’arte moderna di Istanbul ha incoraggiato i bambini di tutta la Turchia a disegnare degli arcobaleni e postarli sul suo sito web. Ma per le opposizioni si tratta solo di un diversivo: in un momento di evidente incapacità politica, Erdoğan starebbe cercando di indicare la comunità Lgbt come capro espiatorio da offrire ai cittadini.
Diritti Lgbt+ e religione
Questo atteggiamento sembra accomunare, insieme ai fondamentalisti islamici, esponenti di un po’ tutte le religioni monoteiste. In Israele, il rabbino ultraradicale Meir Mazuz aveva sostenuto già a inizio emergenza che l’epidemia fosse la punizione divina per i Gay Pride.
Il patriarca Filarete di Kiev, a capo della principale chiesa ortodossa dell'Ucraina che conta tra i propri fedeli circa un quarto della popolazione, ha dichiarato di recente alla tv nazionale che il coronavirus è la “punizione mandata da Dio per i peccati degli uomini”, primo fra tutti “il matrimonio tra persone dello stesso sesso”.
Uguale motivazione ha addotto l’ex nunzio apostolico negli Usa Carlo Maria Viganò, fiero oppositore di Bergoglio, che in un’intervista a The Remnant ha presentato la pandemia come punizione per i peccati delle nazioni che “impongono ai sudditi di accettare leggi contrarie alla morale naturale e alla fede cattolica, quali il riconoscimento di diritti all’aborto, all’eutanasia e alla sodomia”.
E proprio nella cattolicissima Polonia, il governo presieduto da Mateusz Morawiecki, esponente del partito di ultradestra Diritto e giustizia, sta portando avanti da anni una politica dichiaratamente omofoba, con azioni più o meno esplicite di discriminazione. Ultimamente, approfittando del caos creato dall’emergenza coronavirus e dalle elezioni presidenziali (al momento rimandate a data da destinarsi), sta cercando di far approvare dal parlamento leggi che vogliono limitare alcuni diritti civili e vietare l’educazione sessuale nelle scuole, accostando l’omosessualità alla pedofilia.
Ungheria, Brasile, Stati Uniti: apertura o opportunismo?
In modo analogo, nella vicina Ungheria, il primo ministro Viktor Orbán ha chiesto e ottenuto i pieni poteri a tempo indeterminato per gestire l’emergenza coronavirus. Tra i primi provvedimenti presi, quello che vieta il riconoscimento legale delle persone transgender. Tra i più recenti, la mancata ratifica della Convenzione di Istanbul, il documento più avanzato in materia di prevenzione e difesa dalla violenza sulle donne.
La motivazione addotta è ancora una volta legata all’omofobia di Orbán e del suo governo vicino agli ultracattolici: la nazione, infatti, avrebbe già tutti gli strumenti per tutelare le donne, mentre la Convezione sarebbe solo un pretesto per obbligare l’Ungheria ad accogliere richiedenti asilo fuggiti dai propri paesi per motivi di orientamento sessuale.
Con queste premesse suona molto strana la decisione, pubblicata dal National Blood Transfusion Service ungherese a metà aprile ma retrodatata al primo gennaio 2020, di eliminare il divieto di donazione di sangue da parte di omosessuali e bisessuali. Una scelta di tolleranza e apertura? Più probabilmente una scelta opportunistica, dettata da una aumentata richiesta di sangue e diminuzione delle scorte a causa del coronavirus, come già successo negli Stati Uniti, dove per gli uomini gay e bisessuali il periodo di astinenza necessario per poter donare sangue è sceso da 12 a 3 mesi in occasione della pandemia, o in Brasile, altro paese guidato da un presidente dichiaratamente omofobo.
Jair Bolsonaro, infatti, ha collezionato nel tempo una serie di esternazioni fin troppo esplicite: che preferirebbe avere un figlio morto piuttosto che gay, che gli omosessuali fanno il lavaggio del cervello ai bambini, che è orgoglioso di definirsi omofobo… e l’elenco potrebbe continuare ancora.
Insomma, sebbene in Brasile il matrimonio tra persone dello stesso sesso sia legale, si assiste spesso a politiche discriminatorie verso la comunità Lgbt+. Non sembra un caso che l'obbligo di 12 mesi di astinenza sessuale per consentire le donazioni di sangue da parte di uomini gay e bisex sia stato eliminato proprio in piena emergenza sanitaria, dopo quattro anni di lavori in tribunale e dalla Corte suprema brasiliana, appunto.
Per quanto riguarda Bolsonaro, non sembra aver cambiato opinione sulla comunità Lgbt+ neanche per la pandemia, visto che a fine aprile ancora sosteneva di non voler seguire le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità perché sarebbe, secondo lui, un istituto che promuove la masturbazione infantile e l’omosessualità, e quindi non degno di credibilità.
La situazione in Italia e in Europa
Ma come vanno le cose in Italia? Non benissimo. Sono numerose le persone Lgbt+ costrette a passare la quarantena in una casa non sicura, a contatto con una famiglia che non li accetta e spesso li costringe e violenze psicologiche o fisiche. Questo succede soprattutto nei piccoli paesi, più frequentemente del meridione, dove non è facile fare coming out e vivere serenamente la propria sessualità senza subire il disprezzo famigliare o sociale.
Alcune iniziative positive sono state intraprese, come quella del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris che, collaborando con le associazioni Alfi Napoli-Le Maree, Antinoo Arcigay Napoli e ATN, è riuscito a creare una rete di assistenza con 25 posti letto per ospitare donne e persone Lgbt+ vittime di violenza dimestica. Ma c’è ancora molto da fare.
Il 14 maggio l’associazione Ilga Europe ha diffuso la Rainbow Map e il Rainbow Index, che racchiudono i dati sulla condizione delle persone Lgbt+ nei paesi del continente europeo. Nel corso dell’ultimo anno, in quasi la metà degli stati considerati non sono avvenuti miglioramenti. L’Italia ha perso un posto rispetto al 2019, fermandosi al 35° su 49. Meglio di noi anche l’Ungheria.
Anche nella liberale Olanda, il primo paese al mondo a legalizzare i matrimoni omosessuali, si registrano ancora episodi di violenze e disagio. Nei giorni di Pasqua, in pieno allarme contagio, una coppia gay è stata aggredita da un ragazzo per strada che gli ha anche sputato addosso. Da poco è nata l’associazione Lhbti+ Steun, che si occupa di supportare i membri della comunità Lgbt+ che stanno soffrendo maggiormente la solitudine e i disagi provocati dalla quarantena, dall’incertezza economica e, a volte, dall’emarginazione.
Insomma, la strada è ancora tutta in salita e maggior attenzione va posta proprio adesso che la priorità all’emergenza sanitaria rischia di far abbassare la guardia e compiere passi indietro in tema di diritti civili.