Esteri

Draghi atlantista? Lo era anche il Conte I. Capire la Cina e migliorare il nostro sistema economico

Di Michele Geraci*

L'intervento dell'ex sottosegretario al Mise Michele Geraci sulla politica estera del governo Draghi

Nel discorso al Parlamento sulla fiducia, il Presidente Draghi ha fatto un richiamo esplicito alla nostra appartenenza atlantica ed al forte rapporto con gli alleati americani. Frasi che sono state interpretate dai nostri media come una forte discontinuità con i due Governi Conte. Il richiamo del Presidente Draghi, tuttavia, credo sia stato necessario non tanto per correggere l’eredità dei precedenti governi, quanto piuttosto a correggere una narrazione, degli stessi media, che pian piano si è insinuata nel nostro paese. Narrazione secondo la quale i governi Conte I & II avevano messo in dubbio la nostra Alleanza atlantica e avevano spostato il nostro asse geopolitico verso l’Asia e la Cina in particolare.

Dal momento che sono parte in causa per il ruolo svolto come Sottosegretario al Commercio Estero e promotore del MoU Via della Seta, sento il dovere di chiarire, anzi, più che chiarire, ripetere ancora una volta quello che dico ininterrottamente da due anni, ma che viene puntualmente “frainteso” da molti dei nostri media: il Governo Conte I non era affatto pro-Cina. La verità, come spesso succede, è molto più semplice: eravamo semplicemente pro-Italia, pro-nostre aziende, pro-benessere dei nostri cittadini, pro-stimolare export – unica componente del Pil che è cresciuta negli ultimi 20 anni - pro-attrazione investimenti stranieri, con dei limiti ben chiari per salvaguardare la sicurezza nazionale e pro-generazioni future che dovranno far fronte all’avanzata dell’Asia. Fare e voler fare affari con la Cina non significa condividerne le scelte in altri campi, anzi è quello che vogliono fare tutti, ne era, tantomeno mia competenza specifica.

33167863 1970587183011768 1

Michele Geraci

L’equivoco è forse nato perché l’Italia, sempre muovendosi all’interno del solco atlantico ed occidentale, aveva deciso, per una volta, di essere un leader, cosa normale ed accettata quando in Europa sono altri paesi a farlo, ma meno quando siamo noi. La preoccupazione nei nostri alleati americani ed europei era che l’accordo, il cui contenuto non era a loro ancora noto, potesse contenere chissà quali concessioni o aperture o, peggio, obblighi da parte del Governo italiano nei confronti della Cina. Paure, comprensibili, ma tenute vive fino alla pubblicazione del testo del MoU stesso che, come tutti gli MoU, non conteneva nessun obbligo, ma era semplicemente un accordo quadro volto a proteggere le nostre aziende che investono o che esportano in Cina, perché’ molte dispute su possibili trattamenti discriminatori o diatribe tra aziende italiani e cinesi potevano essere informalmente sollevate a livello di rappresentanti di governo e risolte più facilmente.

Il testo del MoU anzi contiene tutto il linguaggio caro all’Unione Europea e agli USA sui temi di reciprocità, level-playing field, rispetto dell’ambiente. Anzi, proprio giorni fa, durante una sessione con la Camera di Commercio USA, ho loro consigliato di usare il nostro MoU, come base di partenza per le loro negoziazioni. Quindi nel merito del MoU, tutti i dubbi sono stati successivamente risolti in positivo. Resta, il tema del valore politico di un accordo con la Cina che è stato visto come un prendere le distanze dalle posizioni atlantiste.

Nulla di più lontano dalla realtà: in primis perché io che l’ho portato avanti ho sempre detto che in nessun modo un accordo commerciale con la Cina potesse cambiare l’asse geopolitico dell’Italia. Quindi, la mia posizione è sempre stata chiara. Ma anche su questo, i nostri media hanno, curiosamente, ignorato quel che ascoltavano dalle mie parole e giocato ad indovinare il mio pensiero e creare una realtà alternativa sulle mie stesse intenzioni. Purtroppo, anche una storia inventata se ben riportata, meglio ancora da più testate e con continuità, crea nei lettori una parvenza di verità. L’MoU è stato fatto per fare affari nel rispetto delle istituzioni e regole democratiche con l’approvazione dal garante della nostra Costituzione e del posizionamento geopolitico atlantista. È evidente che il Presidente Mattarella non avrebbe avallato se avesse avuto dubbi geopolitici.

Andiamo oltre e chiediamoci, anche da un punto di vista puramente teorico, perché mai fare un accordo commerciale con la Cina avrebbe dei connotati anti-Atlantisti? Non so la risposta a questa domanda, ma sapevo quel che sarebbe successo, e cioè che altri paesi europei avrebbero firmato i loro MoU. Ed infatti, così è stato perché – cito anch’io Cavour - dopo lo studio dell’algebra, anche io sono passato allo studio delle cose e degli uomini, discipline che ci aiutano a prevedere gli eventi. Ed infatti, dopo l’Italia, puntualmente, anche Svizzera e Lussemburgo, paese fondatore dell’Unione Europea, nonché paese natale del Presidente Juncker, allora critico del nostro MoU, hanno firmato i loro MoU con la Cina per la Via della Seta. Solo poche settimane fa, anche l’Unione Europea ha firmato con la Cina l’accordo sugli Investimenti, il CAI, anche questo un accordo quadro, di principio, senza particolari obblighi né per gli stati membri né per la Cina, ma che illustra il desiderio di tutta l’Unione Europea a volere investire in Cina a ad accoglierne gli Investimenti sul nostro territorio.

Anche questo, quindi, potenzialmente criticabile come un “accordo politico”, e semmai molto più “permeabile” del nostro dal momento che noi, l’Italia, abbiamo una forte legge sul Golden Power che domina su qualsiasi MoU e che protegge gli assets nazionali da qualsiasi acquisizione predatoria, mentre altri paesi dell’Unione non hanno questo meccanismo. Tant’è che quando ci preoccupiamo, giustamente, di una possibile presenza cinese nei nostri porti, dimentichiamo che la Cina è già presente come investitore a Rotterdam, Le Havre, Marsilia, Bilbao, Valencia, Bruges, Anversa, Dunkerque, Amburgo, Pireo, Istanbul, Malta e perfino in Israele ad Haifa, oltre a Vado Ligure. Insomma, dovunque. Ed il nodo ferroviario di Duisburg in Germania è già, da anni, il terminale della via della seta. Quindi, giustamente, i nostri amici europei fanno sia affari che accordi con la Cina.

E gli USA? Gli USA che credo rappresentino ancora l’essenza primaria dell’Atlantismo, anch’essi fanno, giustamente, i loro accordi con la Cina. L’accordo di Fase1 che impone alla Cina l’acquisto di prodotti americani per cercare di colmare il deficit commerciale è anch’esso un MoU, ma è un MoU che, definisco, di “seconda generazione”, perché, al contrario del nostro e del CAI Europeo che sono soltanto degli accordi quadro senza obblighi, l’accordo tra USA e Cina, invece, contiene degli obblighi specifici, con obbiettivi numerici chiari che, inter-alia, danneggiano molto l’Europa perché creano trade diversions. Ma è giusto così, che gli americani facciano, giustamente, i loro accordi commerciali, nell’interesse delle loro aziende e della loro economia, una posizione che non è Trumpista, ma bipartisan e che Biden continuerà a perseguire e nessuno, credo, per questo accusa gli USA di voler spostare il loro asse geopolitico verso est e diventare pro-Cina. Chi lo ha detto di noi è chiaramente intenzionato a strumentalizzare gli eventi per altri fini. Tutti vogliono fare affari con la Cina, tutti vogliono esportare di più in Cina, USA in primis, ma anche tutti gli altri stati europei e del mondo.

E’ importante, invece, capire come l’Occidente deve poter gestire la crescita economica della Cina, una realtà questa che forse non piace a molti e che non deve infatti piacere; ma è la realtà, e come tutte le cose vere, non le narrazioni alternative, va ben compresa, analizza per capire, come sempre, i due lati della medaglia:

1) Le opportunità che essa presenta, essendo l’unico paese con Pil in crescita e a breve la più grande economia del mondo, così come e’ sempre stato negli ultimi duemila anni ad eccezione dei due secoli scorsi

2) le sfide che presenta, la concorrenza che fa alle nostre aziende e forse, ancora più difficile per noi comprendere ed accettare, come un’economia statalista possa far meglio di economie di mercato.

Ma anche da noi, da Roma a Chicago il dibattito su dove tracciare la linea tra stato e mercato si sta, timidamente, avviando. E forse, sarà questa la nostra grande possibile vittoria: trasformare questa sfida che la Cina ci lancia in un’opportunità per migliorare il nostro sistema economico, con uno sguardo più attendo che mai alle fasce deboli, ai meno flessibili, alle generazioni future, e a tutti coloro che in questo mondo Darwiniano non ce la faranno mai da soli, senza l’aiuto dello Stato.

*Michele Geraci è professore di economia ed ex sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico nel governo Conte I