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Guerra, palestinesi martoriati da 57 anni. Ma l'Autorità nazionale non apre bocca

Guerra, palestinesi martoriati da 57 anni. Ma l'Autorità nazionale non apre bocca

L’operazione militare lanciata mercoledì 28 agosto dall’esercito israeliano in Cisgiordania è solo un nuovo capitolo della cruenta escalation in atto. La violenza mortale delle forze israeliane e dei coloni ebrei estremisti, sostenuti e armati nel vero senso della parola dal Governo di Netanyahu, è decuplicata in tutti i Territori occupati. Così è accaduto che mentre l’attenzione del mondo era, e resta, catalizzata dal Genocidio in corso a Gaza, nei Territori occupati le uccisioni illegali e arbitrarie dei palestinesi da parte dell’esercito e delle bande armate di ebrei ultraortodossi, hanno subito un’impennata senza precedenti.

“Solo negli ultimi 11 mesi in Cisgiordania, Gerusalemme Est compresa, sono stati assassinati almeno 662 palestinesi, tra i quali almeno 142 bambini”, ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, alta direttrice per le ricerche e le campagne di Amnesty International, la quale ha aggiunto: “Un’operazione di queste dimensioni causerà un aumento degli sfollamenti forzati, della distruzione di infrastrutture fondamentali e delle punizioni collettive, che sono i pilastri del sistema israeliano di apartheid contro i palestinesi e dell’occupazione illegale dei Territori palestinesi occupati”.

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Dal 7 ottobre, sono quasi 10.000 i palestinesi arrestati senza motivo, fra loro anche donne e bambini. Vengono trattenuti in detenzione amministrativa, modalità che dovrebbe rappresentare un’eccezione e che invece è diventata consuetudine nello Stato ebraico, il quale vi ricorre per stroncare ogni forma di dissenso palestinese.

La violenza in Cisgiordania non è un fenomeno di oggi e nemmeno di ieri. È pane quotidiano fin dal 1967, anno in cui Israele unilateralmente, in linea con la sua dichiarazione di nascita, in seguito alla Guerra dei 6 giorni, si è annesso il territorio cisgiordano, occupandolo illegalmente. Così come sono illegali tutti gli avamposti -embrioni delle colonie-, e tutte le colonie ebraiche realizzate e costruite illegalmente in Cisgiordania.

Violazioni ribadite dalla Corte Internazionale di Giustizia lo scorso 19 luglio, che ha definito l’occupazione e l’annessione da parte di Israele dei territori palestinesi “illegale”, e chiarito una volta per tutte che “le leggi e prassi discriminatorie israeliane contro i palestinesi violano il divieto di segregazione razziale e di apartheid”. Nella sentenza, giunta al termine di un lungo iter iniziato nel 2022, viene anche ordinato il trasferimento immediato di tutti i coloni israeliani, che si stima siano più di 800.000 contro una popolazione araba palestinese di circa 2.000.000 di persone, ai quali si aggiungono i circa 230mila palestinesi che abitano nell’area di Gerusalemme Est.

L’occupazione della Cisgiordania portata avanti, come già scritto altre volte, usando la Bibbia come atto notarile e Dio come agente immobiliare, è una pratica consolidata da decenni e diventata, in questi ultimi 11 mesi, sempre più violenta e fuori controllo. È una delle colonne portanti del sistema di apartheid israeliano volto a sottomettere, terrorizzare e opprimere i palestinesi.

Da decadi, e non solo in questi ultimi mesi, i palestinesi devono assistere impotenti alla demolizione arbitraria delle loro case, all’esproprio delle loro terre, al saccheggio delle loro piantagioni, all’incendio dei loro uliveti, alla distruzione dei loro negozi. Senza potersi difendere, subiscono i sanguinosi e mortali attacchi armati dei coloni, la costruzione e l’espansione degli insediamenti e soffocanti restrizioni che interferiscono in ogni aspetto della loro quotidianità: dalla separazione dei nuclei familiari, alla limitazione della libertà di movimento, fino al diniego dell’accesso alla terra, all’acqua e alle risorse naturali.

Da tre giorni le città di Jenin, Nablus, Tubas e Tulkarem sono prese d’assedio, devastate dalle bombe e da assalti immotivati contro civili abitazioni, alle quali vengono danneggiate porte, finestre, unità di aria condizionata, mobili, elettrodomestici; anche le infrastrutture vitali, come acquedotti, pali elettrici, reti stradali sono prese di mira. Carri armati e soldati sono ovunque. I bulldozer sconquassano strade, divelgono l’asfalto con uncini che si conficcano nel catrame sollevandolo.

Da due giorni è stato imposto il coprifuoco, rendendo impossibile alla popolazione, rimasta già senz’acqua e senza luce, di uscire per potersi procacciare del cibo. In molti non hanno più di che nutrirsi. Anche gli ospedali sono presi d’assedio. Secondo quanto riferito da Amnesty International, “le forze israeliane li hanno circondati impedendovi l’accesso e le autoambulanze che trasportano i feriti e rifornimenti di medicinali faticano a raggiungerli”.

Secondo quanto racconta la corrispondete sul campo di Al Jazeera, la giornalista Nour Odeh, “Jenin è una città fantasma. Tutti i negozi sono chiusi. Nessuno esce di casa”. Pochi minuti fa, da una postazione fuori dal campo profughi, ha riferito di “scambi di colpi di arma da fuoco e forti esplosioni in corso da 40 minuti”.

Ha inoltre aggiunto che “ci sono difficoltà a ottenere informazioni dall'interno del campo, che le telecomunicazioni sono state ostruite e che è difficile accertare se ci sono feriti o meno”. In un articolo scritto lo scorso 20 aprile, registrando l’impennata di violenza causata dai coloni e dall’esercito di occupazione, segnalavo il pericolo che dopo Gaza sarebbe venuto il turno della Cisgiordania. Allora i morti nei Territori occupati erano 450, mentre nella Striscia erano 34.000 e i feriti circa 77.000. Oggi, dopo 4 mesi, i morti sono saliti a oltre 40.600 mentre sfiorano i 93.900 i feriti.

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Da 57 anni la popolazione palestinese non conosce né tregua né pace in questo martoriato territorio. Oggi più che mai è stanca e si sente abbandonata, non solo dalla comunità internazionale, ma soprattutto dall’Autorità nazionale palestinese, la cui leadership non è pervenuta. Semplicemente è assente, muta da mesi. E in questi ultimi tre giorni ha brillato per il suo silenzio, conquistando il record dei minimi storici di apprezzamento da parte di tutta la popolazione.

Una delle rare volte in cui Abu Mazen ha detto qualcosa in questi ultimi 330 giorni di guerra è stato in occasione di una telefonata con Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, nel corso della quale pare abbia dichiarato che “Hamas non rappresenta i palestinesi”. Quel che più sconcerta i palestinesi, al di là della violenza dell’occupazione israeliana, è l’inazione dei suoi leader che di fronte alla vastità delle distruzioni, le centinaia di morti e le migliaia di arresti indiscriminati, si sono limitati a esprimere timide condanne delle escalation e delle punizioni collettive inferte da Israele, senza tuttavia affrontarle. La domanda retorica è d’obbligo: a cosa serve un’imbelle Autorità nazionale palestinese? Viene il sospetto che sia soprattutto funzionale a dare l’illusione che vi sia una mediazione in atto utile a confermare il ruolo di mediatore degli Stati Uniti.

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Il 14 maggio 1948, contro la volontà degli Stati Uniti, Ben Gurion dichiarava la nascita dello Stato ebraico dichiarando: «lo Stato d'Israele si basa su libertà, giustizia e pace come previsto dai profeti d'Israele e assicurerà la completa uguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti indipendentemente da religione, razza o sesso.» Una promessa di libertà, giustizia, pace e uguaglianza rimasta lettera morta.

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