Esteri

Hong Kong-Xinjiang: i nodi interni della Cina e l'offensiva degli Usa

Lorenzo Lamperti

Washington alza la pressione anche sugli uiguri dopo averlo fatto sull'ex colonia britannica

Prima Hong Kong, ora lo Xinjiang. Con in mezzo episodi non chiari legati a leaks e spie. Nonostante Donald Trump, al termine del vertice Nato, abbia dichiarato che il negoziato sulla guerra commerciale stia proseguendo "molto bene", gli Stati Uniti stanno alzando su livelli alti (per certi versi senza precedenti) la pressione sui nodi interni che preoccupano la Cina. 

Dopo l'Hong Kong Human Rights and Democracy Act, la Camera dei Rappresentanti Usa ha approvato una misura per chiedere all'amministrazione Trump sanzioni contro la persecuzione degli uiguri, la minoranza di religione musulmana di etnia turcofona dello Xinjiang, avamposto nord occidentale dell'immenso territorio cinese. Una misura che deve ancora passare per il Senato ma che, come prevedibile, ha subito scatenato la reazione di Pechino che ha paventato ripercussioni in "importanti aree" della cooperazione con Washington, in particolare sui dialoghi in corso sulla trade war, e ha convocato un rappresentante dell'ambasciata statunitense in Cina. E nelle prossime settimane potrebbe arrivare anche il Taiwan Allies International Protection and Enhancement Initiative Act, che propone un rafforzamento dei rapporti tra Washington a Taipei, aprendo un discorso se possibile ancora più ampio dei precedenti.

E' molto difficile assumere una posizione neutrale su quanto sta accadendo a Hong Kong e sulla vicenda dello Xinjiang. Da una parte, Pechino sostiene che Washington sia direttamente coinvolta nelle proteste dell'ex colonia britannica. Dall'altra, gli Stati Uniti parlano di valori democratici e diritti umani e si schierano a sostegno dei manifestanti. La sensazione è che, all'interno della sfida geopolitica in atto che qualcuno si azzarda a chiamare "seconda guerra fredda", valga tutto e il suo contrario.

Certo, il fatto che alcuni giovani di Hong Kong sfilino davanti al Consolato statunitense o sventolino bandiere dell'ex dominatore britannico (che non consentiva certo il suffragio universale da loro ora richiesto) non basta per dire che Washington sia davvero coinvolta nelle proteste. Allo stesso modo, non basta approvare una legge o rilasciare un paio di dichiarazioni sui diritti umani per scacciare la forte impressione che la crisi sia strumentalizzata per fini geopolitici.

Giusto tenere in mente valori e principi fondamentali su diritti e libertà, ma non si può neppure fingere di scoprire oggi che la Cina ha un governo monolitico la cui prima e ultima preoccupazione è il mantenimento della stabilità interna. Così come non si può scoprire oggi che Hong Kong è tornata nel 1997 sotto la sovranità di Pechino, di cui è una regione amministrativa speciale. Un conto è chiedere il rispetto dei diritti e della fase di transizione verso il 2047, un altro conto è pensare di poter esportare un modello democratico che, tra l'altro, il mondo occidentale sembra aver perso lungo il cammino. Il tutto chiedendosi comunque che cosa succederebbe nel proprio paese di fronte a una protesta di tale portata, sfociata spesso in episodi di violenza.

Quando si parla di Hong Kong si tende a esagerare la portata di una tensione democratica che all'interno della Cina continentale non c'è o ha comunque caratteristiche molto diverse da quelle occidentali. E allo stesso tempo si dimenticano le istanze sociali alla base della fase iniziale della protesta, una componente fondamentale della crisi che è stata in buona parte persa per strada. Un po' per l'incapacità del movimento di incanalarle in una rivendicazione programmatica e un po' per lo shift sul tema identitario, più facilmente utilizzabile da Washington come fattore destabilizzante.

Al momento la Cina non è intervenuta direttamente a Hong Kong e, secondo molti analisti, cercherà di non farlo, il più a lungo possibile, provando a far decantare le proteste e aspettando l'aumento della disaffezione dei manifestanti più pacifici, spinta magari anche dai dati economici in continuo peggioramento per l'ex colonia britannica. Anche perché intervenire direttamente a Hong Kong significherebbe per Pechino certificare il fallimento del modello "un paese, due sistemi" e mettere i partner europei spalle al muro davanti a una scelta di campo che invece la Cina ha maggiore interesse, rispetto a Washington, di ritardare il più possibile.

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