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Esteri
Via della Seta, Meloni esce ma rassicura Xi. Per la Cina l'han voluto gli Usa

Italia fuori dalla Via della Seta: che cosa cambia nei rapporti con la Cina

Ora è ufficiale. L'Italia è uscita dalla Via della Seta, versione italiana del nome ufficiale del progetto lanciato da Xi Jinping nel 2013, Belt and Road Initiative. Già dalla campagna elettorale per il voto del 2022, la futura premier Giorgia Meloni e i suoi alleati avevano ripetuto più volte l'intenzione di uscire dall'accordo sottoscritto dal governo Conte nel marzo del 2019. E alla fine, a circa due settimane dalla data limite del 23 dicembre per comunicare il non rinnovo, c'è stato il passaggio formale. Ora si apre la questione sulla possibile reazione della Cina.

La notizia dell'addio italiano non può certo far piacere a Xi, che lo scorso ottobre ha celebrato a Pechino il decimo anniversario del progetto che ha lanciato pochi mesi dopo la sua ascesa al potere come segretario generale del Partito comunista cinese e presidente della Repubblica Popolare. Si tratta della prima defezione nota tra i numerosi paesi entrati a far parte del piano infrastrutturale e commerciale. Il tentativo dell'Italia di depoliticizzare la scelta sembra aver in parte funzionato, ma non ha certo neutralizzato i possibili contraccolpi.

Nonostante nel 2019 la decisione di aderire al progetto fosse stata presentata (probabilmente in modo genuino) come un puro passo commerciale, l'ingresso dell'Italia era stato descritto come un grande successo politico da parte di Pechino. Per la prima volta, un paese del G7 aderiva alla Belt and Road. Di più: l'Italia, culla della civiltà occidentale, riconosceva la validità del ruolo globale della Cina. A supporto di tutto questo, l'inclusione tra gli accordi della restituzione da parte dell'Italia di 796 reperti archeologici alla Cina. Un po' come a restituire anche il ruolo storico della Cina sul palcoscenico globale, ridandole quello che le spettava in chiusura di quel "secolo delle umiliazioni" (quando il paese asiatico aveva perso numerosi pezzi del suo territorio con una serie di trattati ineguali con le potenze occidentali) che il Partito comunista ha giurato di non far ripetere mai.

Meloni prova a neutralizzare il valore politico della scelta dell'Italia

Così come l'ingresso dell'Italia aveva assunto suo malgrado un valore politico, lo fa ora anche l'uscita. Dalla prospettiva di Pechino, la scelta avviene infatti causa indicazioni degli Stati Uniti. Non è certo un mistero che Washington abbia espresso a più riprese la sua contrarietà alla partecipazione italiana alla Belt and Road. Pur senza mai chiedere esplicitamente di uscirne, col governo Meloni che ha anche più volte smentito l'esistenza di pressioni da Washington.

Ma le pressioni possono anche essere indirette e certo per un governo che vuole dare segnali di rassicurazione sulla proprio linea atlantista restare nel progetto cinese sarebbe stato difficile. Forse impossibile, pensando al fatto che nel 2024 proprio l'Italia è chiamata a ospitare il summit del G7. Ed ecco allora che nella visione cinese l'uscita dalla Via della Seta dimostrerebbe che la politica estera italiana, così come in generale quella europea sarebbe troppo poco autonoma rispetto alla strategia degli Usa, votata secondo Pechino proprio al suo contenimento.

D'altro canto, la Cina ha apprezzato i tentativi del governo Meloni di non dare enfasi alla decisione e di provare anzi a dare una serie di rassicurazioni sulla volontà di approfondire il rapporto sul fronte commerciale. Meloni non ha fatto annunci sulla Belt and Road né al summit del G7 di Hiroshima, né durante la visita da Biden alla Casa Bianca. Ma ha anzi inviato in Cina tre ministri del governo: Antonio Tajani, Daniela Santanchè e Anna Maria Bernini, per mostrare di voler continuare e anzi migliorare la coopeazione.

"Non è una battuta d'arresto decisiva"

Da Pechino, dove la decisione italiana era nota da diversi mesi e si aspettava più che altro di capire le modalità di comunicazione, sono arrivate alcune rassicurazioni sulla possibile reazione. "L'eventuale ritiro potrebbe non diventare una battuta d'arresto decisiva nei rapporti bilaterali", aveva scritto il Global Times durante la visita di Tajani. Traduzione: perderete una corsia preferenziale, ma potreste evitare ritorsioni. Soprattutto se da parte italiana verrà mostrata buona volontà, utile a mascherare il colpo d'immagine al progetto cinese che per la prima volta pare destinato a perdere un partecipante.

Inevitabile che le aziende italiane temano qualche ripercussione, ma fin qui sono arrivate diverse garanzie dal governo italiano che non ci saranno ritorsioni significative. Pechino si tiene ovviamente aperta la porta di far pesare questa decisione nei colloqui bilaterali futuri, ma allo stesso tempo potrebbe non essere nei suoi interessi avviare una crisi diplomatica in questa fase che già contiene diverse incertezze. Soprattutto se davvero l'Italia proverà a riempire quel partenariato strategico che proprio nel 2024 compie il suo ventennale e che Tajani ha detto essere "più importante della Via della Seta".

Un segnale di potenziale rassicurazione arriva dal probabile viaggio a Pechino di Sergio Mattarella, che nei primi mesi del 2024 dovrebbe essere ricevuto da Xi.

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