Esteri

La pace tradita: fermiamo la strategia delle armi senza fine

di Marco Scotti

I venti di guerra soffiano forte, ma noi, figli di un continente che ha vissuto l’orrore dei conflitti mondiali, dobbiamo ricordare che la pace è l’unico valore per cui vale la pena combattere

Da Israele all'Ucraina fino a Taiwan: è il tempo di ripensare alla strategia delle armi.  Il commento

"La pace è indivisibile; quando uno è minacciato, tutti lo siamo." Così disse JFK in un mondo apparentemente più semplice, sebbene già carico di tensioni e conflitti. E oggi, quel monito risuona con una forza nuova, tragica. Dall’Ucraina, che lotta da oltre due anni per la propria libertà, al conflitto brutale in Israele e Palestina, che ha riportato alla ribalta l’incubo delle guerre civili, e ora le manovre cinesi sul fronte di Taiwan. È una rincorsa folle alla guerra, una partita che nessuno di noi vorrebbe mai giocare e che tuttavia ci coinvolge, ci inquieta, ci costringe a guardare verso un futuro incerto e carico di minacce.

Quello che vediamo non è più solo una crisi regionale; sono i venti di una tempesta che può abbattersi ovunque, anche qui, nella nostra casa europea, nel cuore dell’Occidente, che inizia a comprendere, forse tardi, di essersi cullato in un’illusione di pace duratura. La Cina, ambiziosa e pericolosamente sicura della propria forza, progetta una stretta su Taiwan, e non è un mistero. Da anni si prepara con manovre militari su larga scala, con schermaglie diplomatiche e pressioni economiche, avanzando ogni giorno un po’ di più nella sua strategia silenziosa e letale. Oggi sembra evidente che il progetto non è mai stato solo di controllo regionale, ma di egemonia globale: e l’ombra lunga di Pechino si estende ormai dall’Asia all’Africa, passando per l’Europa, fino agli Stati Uniti.

E l’Occidente? "La pace non può essere mantenuta con la forza; può essere solo raggiunta con la comprensione." Così ammoniva Albert Einstein. Parole che sembrano provenire da un'epoca ormai lontana e utopistica, ma che oggi risuonano necessarie, urgenti. Dal febbraio 2022, l’Ucraina lotta strenuamente contro un’aggressione che si fa sempre più feroce, e l’Occidente continua a inviare armi in una catena senza fine, nella speranza che il solo sostenere Kiev militarmente porti alla risoluzione del conflitto. Ma è davvero questa la strada per costruire la pace? O è forse il momento di riconoscere che solo una trattativa autentica può fermare una guerra che rischia di diventare senza fine?

Il sostegno a Kiev, che inizialmente era una risposta necessaria e immediata all'invasione, non può più tradursi in un meccanismo automatico, un riflesso acritico che non considera la complessità della situazione sul campo. L'invio continuo di armamenti, infatti, prolunga il conflitto e rischia di compromettere ogni spiraglio per una possibile negoziazione. La storia ci ha già dimostrato che la soluzione armata porta solo a una pace effimera, una tregua armata che può facilmente deflagrare in nuove ostilità.

L’Occidente non può più agire come se bastasse armare un popolo per assicurargli il futuro. Servono altre armi, quelle della diplomazia, della mediazione e del dialogo aperto. È necessario che l’Europa, questa volta, prenda in mano la situazione con una politica lungimirante, una visione di pace che vada oltre le tattiche di breve termine. Perché le armi, per quanto sofisticate, non potranno mai costruire la pace; al massimo, posticipano la guerra.

La strada è difficile, ma l’Occidente ha il dovere morale e storico di ripensare la sua strategia. Il rischio, altrimenti, è quello di rimanere bloccati in una spirale di violenza senza vie d’uscita. Dobbiamo usare la nostra influenza per spingere verso un dialogo serio, costante, che consideri tutte le parti in causa e dia una chance reale alla pace. È una sfida complessa, certo, ma anche un'opportunità: dimostrare che, questa volta, la lezione della storia l’abbiamo appresa davvero.

Tra l’altro, per decenni ha trattato con Pechino e Mosca, chiudendo gli occhi su tutto ciò che andava oltre i confini dell’economia. "Business is business," si diceva, dimenticando che fare affari con un gigante vuol dire anche alimentare il gigante stesso. Oggi scopriamo che quella scelta ha avuto conseguenze, e le paghiamo care. Le alleanze si rafforzano, le esercitazioni militari diventano più frequenti, e l’Italia, come sempre, si scopre incerta: da che parte stare? Qual è il ruolo che ci spetta? Con quale voce dovremmo prendere posizione di fronte a una potenza come la Cina, che si muove con il silenzio inquietante di chi ha già vinto molte battaglie prima di iniziare a combatterle?

Purtroppo, abbiamo di fronte uno scenario che rende la pace una merce rara, sempre più difficile da difendere, e il rischio è che lo si capisca solo quando sarà troppo tardi. Gli appelli alla diplomazia risuonano vuoti in un mondo che sembra avere una sola lingua: quella delle armi. Eppure, l’Europa ha il dovere di fare qualcosa, di recuperare quel ruolo di mediatrice che spesso ha delegato agli Stati Uniti, imponendosi con una fermezza nuova. Non possiamo più permetterci di restare immobili, attori silenziosi di un conflitto che si avvicina inesorabilmente.

I venti di guerra soffiano forte, ma noi, figli di un continente che ha vissuto l’orrore dei conflitti mondiali, dobbiamo ricordare che la pace è l’unico valore per cui vale la pena combattere. Ogni arma dovrebbe diventare superflua, ogni esercito un simbolo inutile, ogni confine un ricordo. Ma fino a quel momento, abbiamo il dovere di restare uniti, di insistere, di resistere: che la voce della pace sia sempre più forte di quella delle bombe.

 

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