Esteri
Sudan, guerra tra golpisti: centinaia tra morti e feriti. L'ombra della Russia
Violenti scontri nella capitale Khartum e nel resto del Paese. "Il generale da Putin il giorno dell'invasione dell'Ucraina"
Il Sudan è di nuovo in fiamme. Le ragioni della crisi
Almeno 56 civili sono stati uccisi da sabato mattina nei combattimenti in corso tra l'esercito sudanese e il gruppo paramilitare RSF in tutto il Sudan. Altri 595 sono rimasti feriti. Questo il nuovo bilancio degli scontri in atto nel paese, secondo il Comitato centrale per i medici sudanesi. "Il numero totale di morti tra i civili è di 56", ha fatto sapere il Comitato centrale dei medici sudanesi, aggiungendo che si registrano "decine di morti" tra le forze di sicurezza, ma non sono state incluse nel bilancio delle vittime.
Era nell'aria da settimane e quello che tutti scongiuravano è accaduto. Nei giorni scorsi si sarebbe dovuto firmare un accordo per aprire un processo politico che avrebbe dovuto riportare i civili al potere in Sudan. La firma è stata continuamente rinviata per disaccordi tra l'esercito regolare, guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan, a capo del Consiglio sovrano, e il capo delle Forze di supporto rapido (Rsf) Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti. Tutto si gioca tra i due. Non si sono messi d'accordo, e così la capitale Khartoum, questa mattina, si è svegliata al suono di colpi d'arma da fuoco pesanti e leggere e di esplosioni quasi senza sosta. La situazione nella capitale, e in tutto il paese, rimane confusa. L'esercito dice di "affrontare il nemico" e parla di "milizie" che accusa di "bugie e "tradimento".
Durante il colpo di stato, Hemedti e Burhan hanno formato un fronte comune per estromettere i civili alla guida del paese dopo la cacciata di Omar al-Bashir. Col passare del tempo, tuttavia, Hemedti ha costantemente denunciato il colpo di stato. Anche di recente si è schierato con i civili - quindi contro l'esercito nelle trattative politiche - bloccando le discussioni e quindi ogni soluzione alla crisi in Sudan.
Le radici dello scontro
Per giorni tra la popolazione della capitale Khartoum si sono rincorse voci di un imminente scontro tra i due campi. Già giovedì scorso l'esercito aveva denunciato un "pericoloso" dispiegamento di paramilitari a Khartoum e in altre città senza "il minimo coordinamento con il comando delle forze armate". Per giorni i civili e la comunità internazionale hanno dovuto accettare un nuovo rinvio della firma dell'accordo politico che avrebbe dovuto far uscire il paese dall'impasse - a causa delle divergenze tra i due generali.
Le divergenze tra i due uomini forti del potere in Sudan riguardano essenzialmente il futuro dei paramilitari. Il ritorno alla transizione democratica dipende dal loro inserimento nelle truppe regolari. L'esercito non rifiuta questo compromesso, ma vuole comunque imporre le sue condizioni di ammissioni e limitarne l'integrazione. Hemedti, invece, rivendica un'ampia inclusione e, soprattutto, un ruolo centrale all'interno dello stato maggiore. Non solo, Hededti ha denunciato il fatto che le raccomandazioni finali avrebbero ignorato le loro proposte relative alla tempistica dell'integrazione nell'arco di due anni.
Il nodo, dunque, è quello del ruolo delle forze armate e la loro composizione. L'esercito, infatti, in Sudan ha sempre svolto un ruolo fondamentale e detiene buona parte del potere, non solo politico, ma anche economico. Controlla molte attività fondamentali per il paese. E qui sta anche la ragione dell'irrigidimento del capo delle Forze di supporto rapido. Ma altri problemi continuano a minare la fattibilità dell'accordo.
Una crisi senza precedenti
I Comitati di resistenza, così come l'Associazione dei professionisti sudanesi, che sono stati all'origine della rivoluzione del 2019, ripetono di rifiutare qualsiasi accordo con i soldati golpisti. E hanno continuato, regolarmente, a manifestare contro l'attuale regime. Infine, i gruppi armati che si sono rifiutati di aderire al dialogo a dicembre e hanno negato ai civili la legittimità di guidare la transizione si stanno mettendo di traverso. Gibril Ibrahim, attuale ministro delle Finanze e leader del Movimento per la giustizia e l'uguaglianza, nei giorni scorsi sosteneva che "se le cose accadono così", cioè come vuole Burhan, "non stabilizzeranno il Paese e le loro conseguenze sono sconosciute". Ora si vedono tutte.
Sciogliere il nodo delle forze armate è fondamentale per un paese che ha sempre visto i militari sostenere il dittatore: sganciarle dal potere politico porterebbe il paese sul cammino della democrazia, metterebbe fine al regime dei golpisti e, soprattutto, ridarebbe fiato all'economia che sta vivendo una crisi senza precedenti e aprirebbe, nuovamente, la strada a interventi delle istituzioni finanziarie internazionali necessari per avviare riforme fondamentali per la vita stessa del paese. La comunità internazionale, infatti, ha chiesto il ritorno alla transizione per riprendere gli aiuti al Sudan, uno dei paesi più poveri al mondo. Se le parti in causa avessero raggiunto un accordo, la tabella di marcia prevedeva l'entrata in vigore della Costituzione provvisoria e la formazione di un nuovo governo civile, già entro questo mese. Poteva essere una svolta storica, ma tutto è stato soffocato dalla bulimia di potere, ancora una volta, dei militari.
L'ombra della Russia
Come scrive il Corriere della Sera, "il terzo Paese più esteso dell’Africa ha un Pil di appena 35 miliardi di dollari (poco più di Cipro) ma è considerato una cerniera cruciale con il mondo arabo e un terreno di crescente sfida geopolitica tra Occidente e Russia. Il giorno dell’invasione dell’Ucraina, il generale Dagalo (l’ex cammelliere capo banda Janjaweed) si trovava a Mosca, per colloqui con Putin in persona".
Secondo quanto scrive il Corriere della Sera, "di recente Dagalo si è incontrato con il ministro degli Esteri Lavrov, senza disdegnare i contatti con i suoi padrini arabi (emiratini e sauditi). Nel risiko internazionale l’esercito regolare del generale Burhan, sulla carta numero uno delregime, vanta appoggi nel soprastante Egitto (alcuni militari del Cairo sono stati fatti prigionieri dai miliziani) e interlocutori pure molto critici come Stati Uniti ed Europa che nei mesi scorsi avevano spinto per la fine del governo militare insediatosi un anno e mezzo fa".
Palazzo Chigi: "Gli italiani restino a casa"
In Sudan il governo "segue la situazione di sicurezza dei cittadini italiani, che sono invitati a restare a casa o in altro luogo sicuro, come chiesto dalla Ambasciata d'Italia, aperta e operativa", rende noto un comunicato di palazzo Chigi.
"Il Governo italiano segue con preoccupazione gli eventi in corso in Sudan e si unisce agli appelli ONU, UA e UE perché cessino i combattimenti a Khartoum e altrove, per la sicurezza del popolo sudanese e per risparmiare ulteriori violenze. Invita quindi le parti in causa ad abbandonare la via delle armi, e a riprendere i negoziati avviati da tempo, affinché il popolo sudanese esprima le proprie scelte nell'ambito di un processo elettorale. La violenza porta soltanto altra violenza", aggiunge la nota.