Esteri
Ucraina: per fermare Putin, conta più il brand activism della politica
La strada diplomatica finora ha portato al fallimento: per evitare la Terza Guerra Mondiale, bisogna puntare sul potere economico
La diplomazia balbetta, l'economia può essere decisiva
La drammatica evoluzione della guerra in Ucraina sta esacerbando una tendenza che era in atto già da tempo: l’evaporazione del primato della politica, soppiantata dal potere economico. Lo scenario è tipico del modello capitalistico che, dopo il crollo del Muro di Berlino, si è diffuso anche nei paesi ex-sovietici. Per quanto Vladimir Putin soffra di nostalgia verso quei tempi e stia in tutti i modi rilanciando l’ostilità russa all’Occidente, anche il suo Paese è un nodo della rete economica globale, uno dei più rilevanti. Da qui viene la necessità di ricorrere alle sanzioni per mettere un freno alla sua scellerata iniziativa bellica: è l’unico strumento alternativo alla risposta sul suo stesso campo, che inevitabilmente porterebbe alla Terza Guerra Mondiale.
Isolare la Russia sul piano economico significa evidenziarne la sua interdipendenza del resto del mondo, perché nemmeno la relazione privilegiata con la Cina le basterà per assorbire il danno. L’obiettivo è incrinare lo strapotere di Putin, fondato proprio sulla crescita economica che ha consentito alla Russia di affrancarsi dalla crisi post-comunista per creare un notevole arricchimento, seppure con le sperequazioni che sono tipiche – appunto – del capitalismo. La speranza è che siano proprio gli oligarchi, nonché le aziende russe che vivono di relazioni internazionali, a rovesciare Putin o quantomeno a fermarne l’impeto colonialista. I mugugni di Lukoil e i contratti di sponsorizzazione stracciati in faccia a Gazprom potrebbero essere le micce in grado di accendere questo processo, non scontato.
Tim Cook e il ruolo di Apple
D’altra parte, è clamorosamente fallito il processo diplomatico, con la sfilata di leader accolti da Putin nella sua sfarzosa sala riunioni e bellamente presi in giro, dopo averli posti dall’altro capo del suo ormai famoso tavolone. Pur sperando che possa avere miglior esito la mediazione del Premier israeliano Naftali Bennet (o in subordine quella di Angela Merkel o di Papa Francesco, evocati in queste ore drammatiche), certamente stanno risultando più efficaci le prese di posizione di brand influenti, che hanno deciso di boicottare l’economia russa e/o di sostenere l’Ucraina. Particolarmente significativo è un passaggio della lettera con la quale Tim Cook, Ceo di Apple, spiega la decisione di sospendere le proprie vendite in Russia: “In questi tempi difficili, mi conforta sapere che siamo uniti nel nostro impegno reciproco, verso i nostri utenti e nell’essere una forza per il bene nel mondo”. Può sorprendere che un’azienda privata, logicamente votata al profitto, si definisca in questo modo, ma il brand activism è un fenomeno in atto ormai da tempo e prevede che i marchi commerciali prendano posizione sui temi più delicati e divisivi della vita sociale, ivi compresi quelli etici e politici. Ciò accade perché la qualità dei prodotti non è più in grado di fare la differenza: bisogna creare un legame più profondo con il proprio target, anche correndo il rischio di scontentare chi non concorda con le posizioni assunte.
Per questo motivo, i manager più lungimiranti da tempo stanno portando a bordo consulenti specializzati anche nella lettura degli scenari politici, così da interpretare al meglio quella “politicizzazione del marketing” che rappresenta ormai un obbligo professionale ineludibile. Lo è soprattutto in un’era nella quale la sfiducia nei confronti della politica è tale da portare l’astensionismo a livelli record, che in precedenza eravamo abituati a vedere solo dall’altra parte dell’Oceano. In un panorama in cerca di punti di riferimento, le aziende che davvero hanno una vision hanno anche la concreta possibilità di colmare tale vuoto.
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