Libri & Editori

“Come d’aria”, libro di Ada d’Adamo in gara allo Strega. Recensione

di Chiara Giacobelli

Probabilmente il memoir più intenso e commovente nella dozzina dello Strega

Ada d’Adamo non è più tra noi, ci ha lasciati qualche settimana fa, ma la sua opera continua a far parlare di lei e della sua storia. In libreria per Elliot Come d’aria, dedicato alla figlia malata e a tutti coloro che hanno il coraggio di guardare in faccia il lato crudele dell’amore.

Proseguiamo con le recensioni dei libri rientrati nella dozzina del Premio Strega 2023. Merita uno spazio particolare Come d’aria, il memoir di Ada d’Adamo pubblicato da Elliot, non soltanto perché è una delle opere più belle e potenti di questa semifinale – che speriamo con tutto il cuore rientrerà nella cinquina –, ma anche perché l’autrice non ce ne può più parlare. Lo ha fatto negli ultimi giorni della sua vita: era malata di cancro da anni, una battaglia che ha combattuto più per la propria famiglia che per sé stessa, e tuttavia quando poteva, nei momenti in cui era abbastanza in forze, si rendeva disponibile per presentare al pubblico il suo Come d’aria. Il gioco di parole, di cui probabilmente vi sarete accorti, non è casuale: Daria è proprio il nome di sua figlia, una creatura che sfida le leggi della gravità e si fa aria, volo, movimento, a causa di una rara malattia congenita: l’oloprosencefalia. Scrive l’autrice nel suo bellissimo e toccante memoir autobiografico: “Finirò col disciogliermi in te? Sono Ada. Sarò D’aria…”.

Come d'aria
 

Dunque partiamo dall’inizio, sebbene non sia facile stabilire quale possa essere l’inizio di questa straziante storia, piena di amore ma anche di un’immensa sofferenza. Potremmo farla cominciare con la nascita della bambina, quasi uno scherzo del destino dopo la scelta di un precedente aborto. Daria arriva come un dono: i primi sguardi, i primi abbracci, i primi sorrisi e le ninnenanne; tuttavia qualcosa non va sin dal principio. Ada è forse l’unica a non accorgersene o a non volerlo fare, ma i medici sono perspicaci – e implacabili -, le amiche intuiscono, le infermiere sussurrano. Pochi minuti appena e quel corpicino così piccolo le viene strappato dalle mani per essere sottoposto alle analisi, che – come un fulmine a ciel sereno – emettono la sentenza: oloprosencefalia, ovvero una malformazione congenita del cervello che nei casi più gravi può generare esseri umani simili a mostri, a malapena riconoscibili. Non è però il caso di Daria, per fortuna, che nella sua disabilità è sempre stata bella, bellissima, con i capelli biondi riccioluti e il viso proporzionato; una bellezza che talvolta aiuta, crea empatia, ma allo stesso tempo inganna, perché la bimba piange per intere ore. Non si tratta di capricci né delle normali agitazioni infantili: Daria soffre, profondamente, da sempre e per la sua intera vita; un’esistenza segnata dal dolore e dall’impossibilità di esprimerlo, perché lei non riesce a parlare, a malapena vede, non cammina, non mantiene neppure una posizione eretta.

È la fine o l’inizio di tutto? Per qualche tempo ad Ada sembra la fine: della sua vita spensierata da ballerina e artista, del suo orgoglio di essere madre, della sua indipendenza, della felicità determinata dal veder crescere un figlio, stringere le prime amicizie, imparare a leggere e scrivere, fare sport, diventare autonomi, innamorarsi, arrabbiarsi con il mondo, festeggiare, pianificare, sognare, decidere del proprio futuro. Tutto questo a Daria è precluso. E perché, poi? Per una sbagliata diagnosi, una svista di un dottore che non è stato in grado di diagnosticare la malattia dagli esami di routine nel corso della gravidanza.

La fine è però anche un inizio, o per lo meno un nuovo inizio. Imparare ad essere in due, a sostenere, a sostituirsi laddove la figlia non ce la fa, a sopportare i pianti, le grida, la disperazione, con il cuore lacerato. La tiene in vita l’amore, le dà forza e coraggio, cambia il senso intero della sua esistenza. Perché tra una mamma e una figlia disabile si viene inevitabilmente a creare un legame simbiotico: due corpi uniti insieme come se fossero uno solo, in un’unica grande danza del cuore. “Si prodigò, tuttavia, per spiegarmi come contenerti, avvolgendoti stretta come in un bozzolo in modo che ti sentissi più protetta. Tuttora, quando ti contorci nei tuoi spasmi, cerco di adattare quella strategia di contenimento alle tue dimensioni non più da neonata. Ormai è impossibile racchiuderti in una specie di guscio, ma creare con te dei punti di contatto – fronte contro guancia, mani contro pancia, polso contro collo – riduce in parte l’esplosione scomposta degli arti, l’inarcarsi della schiena, la torsione del busto. (…) Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te”.

C’è però anche un altro inizio, ed è quello che sceglie l’autrice per il suo Come d’aria, edito da Elliot e piaciuto così tanto alla giuria dello Strega da finire dritto nella dozzina, su proposta di Elena Stancanelli, giornalista de La Stampa, che lo ha definito “un libro magico… una gigantesca storia d’amore che sceglie di non fare mai i conti, addizioni e sottrazioni, quanto bene e quanto dolore. Ma non dimentica”. L’incipit è di nuovo sul nome, su quel gioco di parole che tanto si addicono alla condizione della figlia. “Sei Daria. Sei D’aria. L’apostrofo ti trasforma in sostanza lieve e impalpabile. Nel tuo nome un destino che non ti fa creatura terrena, perché mai hai conosciuto la forza di gravità che ti chiama alla terra”. La prima pagina è un augurio, una lettera poetica, una riflessione intima e profonda, una confessione d’amore. Ma basta girare il foglio per venire catapultati nell’oscurità della malattia: non quella di Daria, ma di Ada, che ha iniziato a scrivere queste parole dopo aver scoperto di avere un cancro forse incurabile, durante le interminabili sedute di radio e chemioterapia, anche quando la memoria, il linguaggio, la lucidità mentale le venivano meno. Ed è proprio per questo che il suo libro assume un significato particolare: è raccontato dal punto di vista di chi se ne sta per andare, di chi ormai è consapevole e non ha più nulla da perdere, di chi è già proiettato verso la vita delle persone che ama quando non ci sarà più. Un qualcosa su cui nessuno di noi si ferma mai a riflettere, sprecando talvolta le giornate in attività futili, convinti di avere ancora tempo. Fino a quando un bel giorno, all’improvviso, arriva la diagnosi e il tempo finisce.

Chiara Gamberale parla di Come d’aria definendolo “una storia d’amore luminosa e ingiusta come tutte le storie d’amore, ma di più”. In realtà, questo è un libro in cui le parti buie sono forse più di quelle brillanti: dominano i neri, i grigi spenti, gli ocra delle pareti ospedaliere, i marroni dei mobili nella penombra quando anche un raggio di sole fa male. Ed è proprio nella crudeltà del racconto che si concentra la sua forza: sarebbe stato troppo facile descrivere la malattia attraverso quella patina edulcorata che tanto piace ai lettori, perché in fondo ciò che desideriamo una volta concluso un libro è sentirci al sicuro. Qui no, non accade. L’imponderabile ci viene sbattuto in faccia come qualcosa che potrebbe capitare a chiunque e a quel punto l’esistenza diventa un turbinio di se e di ma: “E io? Se avessi potuto scegliere, se avessi saputo, cosa avrei fatto? Se potessi, Daria, mi ti rimetterei dentr’a la panz? Se potessi scegliere, sceglierei di non farti nascere? La domanda prescinde da te. La domanda vale di per sé”. Il solo fatto che la domanda esista, che venga posta e persino scritta, fa meritare a questo libro di essere letto. Semplicemente perché è vero, autentico, sincero.

Concludiamo questa recensione, che ci sarebbe piaciuto far diventare una piccola intervista come per gli altri concorrenti in gara, con una lettera che l’autrice scrisse a Corrado Augias nel febbraio 2008 e venne pubblicata su La Repubblica. Già in essa si concentrava in nuce il pensiero di Ada, che non ebbe paura di mettersi contro l’opinione pubblica o le associazioni pro-vita per denunciare quanto sia difficile, talvolta impossibile, la quotidianità di una famiglia con un grave disabile a carico, nonché quanto sia straziante vedere ogni giorno la sofferenza negli occhi di chi si ama e dunque quanto ingiusto possa essere giudicare da lontano, senza sapere. Vale la pena riportarne qualche stralcio per la sua schiettezza, ben al di là dell’ipocrisia sociale. Senza quella lettera, in fondo, probabilmente neppure Come d’aria sarebbe esistito, o quantomeno non avrebbe assunto l’aspetto di critica sociale che lo caratterizza e gli dà senso d’esistere.

“Non tutti hanno la forza fisica, gli strumenti psicologici, i mezzi economici, la cultura che ci vuole per combattere contro la burocrazia implacabile, contro la crudeltà di certi medici e l’inciviltà imperante, la solitudine e la stanchezza e, infine, contro se stessi e la propria inadeguatezza. È per queste persone, soprattutto, che le scrivo. La chiesa, la politica, la medicina smettano di guardare alle donne come a puttane che non vedono l’ora di uccidere i propri figli. L’aborto è una scelta dolorosa per chi la compie, ma è una scelta e va garantita. Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta. Ma se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l’aborto terapeutico. Ai medici che vogliono rianimare i feti anche senza il consenso delle madri dico di uscire dai reparti di terapia intensiva, andare a vedere con i loro occhi cosa sono diventati quei bambini, a quale eterno presente hanno condannato quelle madri”.

Un libro semplicemente meraviglioso, e vero. Da leggere, da regalare, da condividere.