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Covid: oltre il lockdown, la malattia e la morte resta l’amore per la vita

di Sara Perinetto

Alimenta, un’antologia di racconti per riscoprire il valore del ricordo, dell’amore e della speranza nella costruzione di un futuro libero dalla malattia

Mentre i monumenti nazionali dei vari Paesi vengono illuminati dai colori delle rispettive bandiere, si consuma un dramma di portata mondiale. Il tempo si ferma nelle case ma corre troppo veloce nelle corsie degli ospedali.  Sempre più spesso qualcuno deve prendersi il drammatico incarico di decidere chi continuare a curare, sperando di strapparlo  alla  morte,  e  chi  lasciare  andare  perché  le  probabilità  di sopravvivenza sono estremamente basse. Non c’è nessuno a vegliare accanto ai moribondi; nessun parente  o  amico  a  stringere  loro  la  mano,  ad  abbassare  pietosa- mente le loro palpebre.

Tanti arrivano a pensare che sia stato un bene aver perso il padre o la madre, un fratello o un compagno prima che la pandemia da Covid 19 impedisse anche questo contatto. È vero, si muore  soli, ma non perdiamo  l’illusione che quel momento  possa  essere  meno  doloroso  se  accompagnati  da  chi amiamo. Tutte le sere nonno Alberto e Marta, prima di andare a letto, invece di raccontarsi fiabe parlano dei loro progetti futuri: si rifiutano di permettere al virus di annichilire le loro esistenze. Ma, quando si ritrovano da soli nei loro letti, la ragazza è angosciata  per  il  nonno,  il  nonno  piange  silenziosamente  per  la paura di perdere la sua ragazza.

Ai familiari non conviventi è fatto divieto di incontrarsi: per fortuna Marta e nonno Alberto non si sono mai separati. Mai. Da quando Marta parlava con le rose. Mai.  Fino  al  24  aprile  2020,  quando  un’ambulanza  a  sirene spiegate lo ha portato via. Sì, proprio quando tutto sembrava finito.  Quel  drammatico  pomeriggio  Marta  non  ha  mai  smesso  di guardarlo negli occhi.  Mentre il personale medico si adoperava intorno ad Alberto, i loro occhi verdi parlavano per loro e nessuno poteva sentirli: “Ti sono vicina, nonno”.

“Stai tranquilla, ce la farò”

“Lo so, nonno. Non mi lascerai in questa maniera”.

“Abbi cura di te. Continua a studiare”.

“Sì, nonno”.

“Voglio vederti laureata”.

“Assisterai alla discussione della tesi”.

“Certo, bambina mia”.

“Ricordati: lo hai promesso a mamma e papà quando ci hanno lasciato per quel maledetto incidente”.

“Lo so, non ho ancora finito con te”.

“Allora ti aspetto”.

“Contaci. Ma fammi una promessa”.

“Quale?”

“Riguardati e non cercare di venire in ospedale”.

“Starò attenta nonno. Adesso non posso accompagnarti in ospedale ma quando sarà possibile, verrò”.

“Ti voglio bene, Marta”.

“Ti voglio bene, nonno”.

Mancano poche ore a Natale. Da aprile Marta non vede il nonno. Ha trascorso ore, giorni, mesi nel terrore di non rivederlo più. Ha mantenuto la promessa, continuando a studiare e sempre attenta a rispettare tutte le nuove regole. In  giugno  ha  cominciato  ad  avvicinarsi  all’ospedale,  ogni giorno, senza mai poter entrare. Sulla panchina di un giardino pubblico, dal quale si intravede almeno una facciata dell’ospedale, ha trascorso interi pomeriggi, leggendo o studiando. Restando là, le sembrava di essere più vicina a nonno Alberto.

Così, ogni giorno, fino a quando nuove restrizioni glielo hanno impedito. Si è ritornati alla chiusura, prima parziale e poi totale, delle attività e Marta è ancora una volta chiusa in casa, questa volta nella casa vuota perché suo nonno non c’è. La ragazza  non si è abituata a vivere senza di lui, né vuole farlo. Nonno Alberto è ancora in ospedale. Per fortuna o per miracolo. Dipende dai diversi punti di vista dai quali si vuole considerare l’accaduto.

Adesso  Marta  può  avere  notizie  sul  decorso  della  malattia tramite la telefonata quotidiana che fa ai medici. In particolare ella ricorda una telefonata. Era fine novembre. Una conversazione ben nitida nella sua memoria, malgrado l’inesorabile e lento scorrere dei giorni. Una voce gentile e premurosa la informa sulle condizioni di salute del nonno. “Stia  tranquilla!  Nonno  Alberto  è  una  roccia  e  le  vuole  molto  bene”.

“Lo so. Lei non può immaginare quanto gliene voglio. Neppure io  pensavo che fosse così forte il legame che ci unisce”.

“Mi creda, signorina, poche volte, per non dire mai, ho sentito con  tanta intensità la forza dell’amore”.

“Pensate che potrò riportarlo a casa?”

“Crediamo proprio di sì. Ma dobbiamo avere ancora un po’ di pazienza. Sia fiduciosa”.

“Sempre”.

“La chiameremo il giorno stesso delle dimissioni”.

“Speriamo presto”.

“Ce lo auguriamo tutti”.

“Grazie”.

Da  quella  telefonata  è  trascorso  quasi  un  mese,  durante  il quale Marta ha vissuto praticamente in attesa di sentire lo squillo della linea fissa. Stamattina, 24 dicembre, dopo una notte di agitazione, di ansia e di aspettative, ha indossato un pantalone nero e una bella camicetta bianca, con il collo ricamato, trafugata da tempo dall’armadio di sua madre. Ricordava che quando nonno Alberto l’aveva vista la prima volta con quella camicetta, si era commosso e per un attimo l’aveva scambiata per sua figlia. L’aveva chiamata ‘Flavia’. Era diventata proprio bella Marta e Alberto non poteva non riconoscere in lei le fattezze della figlia.

La ragazza, quel 24 dicembre, non riusciva a concentrarsi. Desiderava con tutte le sue forze trascorrere con il nonno anche quel Natale. Era stata tentata di non allestire neppure il presepe, quell’an- no. Poi, il ricordo  di  quanto nonno  Alberto  amasse le  festività natalizie, l’aveva convinta a portar giù dal solaio tutto l’occorrente. Non avrebbe deluso il nonno, se fosse stato dimesso. Ecco, era quel “se” che la tormentava. Si rimproverava di crederci poco: cosa le diceva sempre Alberto? “Se tu per prima non credi di ottenere quello che desideri, non ci  crederanno gli altri.”

Il mattino trascorse senza nessuna novità. Alle 15 aveva ormai perso le speranze. “Va bene, vecchia cornetta. Hai deciso di non farmi sentire la tua  voce”, disse con astio rivolta al telefono. (Già, in quei mesi era tornata ai dialoghi con gli oggetti).

“Non è colpa mia; non puoi prendertela con me”.

“Hai  ragione,  perdonami.  È  che  sono  disperata.  Mi  ero  convinta  che il nonno sarebbe ritornato”.

“Sii paziente, cara. Posso ricordarti una cosa?”

“Cosa?”

“Ti ricordi quanti anni ha nonno Alberto?”

“No, questo non te lo consento. È un colpo basso”.

“Va bene, allora porta pazienza”.

“Sì, pazienza! Natale è domani. Hai ragione tu. Posso ancora sperare che il miracolo accada”.

“In fondo  sono  stata  più fortunata  di  tutte  le  persone  che  hanno  perso i loro cari portati via dai camion dell’esercito. Non per tutti il  Natale è una festa”.

“Giusto, ragazza”.

“Sei vivo, nonno. Questa è la sola cosa che conti”.