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Covid: oltre il lockdown, la malattia e la morte resta l’amore per la vita
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Alimenta, un’antologia di racconti per riscoprire il valore del ricordo, dell’amore e della speranza nella costruzione di un futuro libero dalla malattia
Mentre i monumenti nazionali dei vari Paesi vengono illuminati dai colori delle rispettive bandiere, si consuma un dramma di portata mondiale. Il tempo si ferma nelle case ma corre troppo veloce nelle corsie degli ospedali. Sempre più spesso qualcuno deve prendersi il drammatico incarico di decidere chi continuare a curare, sperando di strapparlo alla morte, e chi lasciare andare perché le probabilità di sopravvivenza sono estremamente basse. Non c’è nessuno a vegliare accanto ai moribondi; nessun parente o amico a stringere loro la mano, ad abbassare pietosa- mente le loro palpebre.
Tanti arrivano a pensare che sia stato un bene aver perso il padre o la madre, un fratello o un compagno prima che la pandemia da Covid 19 impedisse anche questo contatto. È vero, si muore soli, ma non perdiamo l’illusione che quel momento possa essere meno doloroso se accompagnati da chi amiamo. Tutte le sere nonno Alberto e Marta, prima di andare a letto, invece di raccontarsi fiabe parlano dei loro progetti futuri: si rifiutano di permettere al virus di annichilire le loro esistenze. Ma, quando si ritrovano da soli nei loro letti, la ragazza è angosciata per il nonno, il nonno piange silenziosamente per la paura di perdere la sua ragazza.
Ai familiari non conviventi è fatto divieto di incontrarsi: per fortuna Marta e nonno Alberto non si sono mai separati. Mai. Da quando Marta parlava con le rose. Mai. Fino al 24 aprile 2020, quando un’ambulanza a sirene spiegate lo ha portato via. Sì, proprio quando tutto sembrava finito. Quel drammatico pomeriggio Marta non ha mai smesso di guardarlo negli occhi. Mentre il personale medico si adoperava intorno ad Alberto, i loro occhi verdi parlavano per loro e nessuno poteva sentirli: “Ti sono vicina, nonno”.
“Stai tranquilla, ce la farò”
“Lo so, nonno. Non mi lascerai in questa maniera”.
“Abbi cura di te. Continua a studiare”.
“Sì, nonno”.
“Voglio vederti laureata”.
“Assisterai alla discussione della tesi”.
“Certo, bambina mia”.
“Ricordati: lo hai promesso a mamma e papà quando ci hanno lasciato per quel maledetto incidente”.
“Lo so, non ho ancora finito con te”.
“Allora ti aspetto”.
“Contaci. Ma fammi una promessa”.
“Quale?”
“Riguardati e non cercare di venire in ospedale”.
“Starò attenta nonno. Adesso non posso accompagnarti in ospedale ma quando sarà possibile, verrò”.
“Ti voglio bene, Marta”.
“Ti voglio bene, nonno”.
Mancano poche ore a Natale. Da aprile Marta non vede il nonno. Ha trascorso ore, giorni, mesi nel terrore di non rivederlo più. Ha mantenuto la promessa, continuando a studiare e sempre attenta a rispettare tutte le nuove regole. In giugno ha cominciato ad avvicinarsi all’ospedale, ogni giorno, senza mai poter entrare. Sulla panchina di un giardino pubblico, dal quale si intravede almeno una facciata dell’ospedale, ha trascorso interi pomeriggi, leggendo o studiando. Restando là, le sembrava di essere più vicina a nonno Alberto.
Così, ogni giorno, fino a quando nuove restrizioni glielo hanno impedito. Si è ritornati alla chiusura, prima parziale e poi totale, delle attività e Marta è ancora una volta chiusa in casa, questa volta nella casa vuota perché suo nonno non c’è. La ragazza non si è abituata a vivere senza di lui, né vuole farlo. Nonno Alberto è ancora in ospedale. Per fortuna o per miracolo. Dipende dai diversi punti di vista dai quali si vuole considerare l’accaduto.
Adesso Marta può avere notizie sul decorso della malattia tramite la telefonata quotidiana che fa ai medici. In particolare ella ricorda una telefonata. Era fine novembre. Una conversazione ben nitida nella sua memoria, malgrado l’inesorabile e lento scorrere dei giorni. Una voce gentile e premurosa la informa sulle condizioni di salute del nonno. “Stia tranquilla! Nonno Alberto è una roccia e le vuole molto bene”.
“Lo so. Lei non può immaginare quanto gliene voglio. Neppure io pensavo che fosse così forte il legame che ci unisce”.
“Mi creda, signorina, poche volte, per non dire mai, ho sentito con tanta intensità la forza dell’amore”.
“Pensate che potrò riportarlo a casa?”
“Crediamo proprio di sì. Ma dobbiamo avere ancora un po’ di pazienza. Sia fiduciosa”.
“Sempre”.
“La chiameremo il giorno stesso delle dimissioni”.
“Speriamo presto”.
“Ce lo auguriamo tutti”.
“Grazie”.
Da quella telefonata è trascorso quasi un mese, durante il quale Marta ha vissuto praticamente in attesa di sentire lo squillo della linea fissa. Stamattina, 24 dicembre, dopo una notte di agitazione, di ansia e di aspettative, ha indossato un pantalone nero e una bella camicetta bianca, con il collo ricamato, trafugata da tempo dall’armadio di sua madre. Ricordava che quando nonno Alberto l’aveva vista la prima volta con quella camicetta, si era commosso e per un attimo l’aveva scambiata per sua figlia. L’aveva chiamata ‘Flavia’. Era diventata proprio bella Marta e Alberto non poteva non riconoscere in lei le fattezze della figlia.
La ragazza, quel 24 dicembre, non riusciva a concentrarsi. Desiderava con tutte le sue forze trascorrere con il nonno anche quel Natale. Era stata tentata di non allestire neppure il presepe, quell’an- no. Poi, il ricordo di quanto nonno Alberto amasse le festività natalizie, l’aveva convinta a portar giù dal solaio tutto l’occorrente. Non avrebbe deluso il nonno, se fosse stato dimesso. Ecco, era quel “se” che la tormentava. Si rimproverava di crederci poco: cosa le diceva sempre Alberto? “Se tu per prima non credi di ottenere quello che desideri, non ci crederanno gli altri.”
Il mattino trascorse senza nessuna novità. Alle 15 aveva ormai perso le speranze. “Va bene, vecchia cornetta. Hai deciso di non farmi sentire la tua voce”, disse con astio rivolta al telefono. (Già, in quei mesi era tornata ai dialoghi con gli oggetti).
“Non è colpa mia; non puoi prendertela con me”.
“Hai ragione, perdonami. È che sono disperata. Mi ero convinta che il nonno sarebbe ritornato”.
“Sii paziente, cara. Posso ricordarti una cosa?”
“Cosa?”
“Ti ricordi quanti anni ha nonno Alberto?”
“No, questo non te lo consento. È un colpo basso”.
“Va bene, allora porta pazienza”.
“Sì, pazienza! Natale è domani. Hai ragione tu. Posso ancora sperare che il miracolo accada”.
“In fondo sono stata più fortunata di tutte le persone che hanno perso i loro cari portati via dai camion dell’esercito. Non per tutti il Natale è una festa”.
“Giusto, ragazza”.
“Sei vivo, nonno. Questa è la sola cosa che conti”.