Il filosofo Cascio tra gli insigniti al Libro Premio - Manfredonia. Intervista
Cascio scrive non perché deve dire qualcosa, ma perché realmente ha qualcosa che vuole e sa raccontare, e lo fa con una coreografia che ricorda Fellini
Intervista
Mauro Cascio, da dove nasce l'ispirazione per "Un pozzo di Abati e di Principi? Cosa è per Cascio il Pozzo?
“Tutto nasce dall’ispirazione. O meglio: dalla sua mancanza. Questo è il tormento dell’antagonista (che per lungo tempo crediamo il protagonista) del raccontare. Lui è un musicista, uno che non ne indovina più una. E questo disagio artistico si allarga, diventa disagio economico e quindi esistenziale. Una questione di riconoscimento. Si rende conto dell’ovvio, e l’ovvietà terra terra sfugge a chi ha spesso la testa tra le nuvole. L’ovvio è che il mondo è fatto di denaro, tutto è monetizzazione di qualcosa e se non monetizzi non vali. E da questa spirale non ne esci, per quanto ti possa fare schifo.
Ti prende e ti trascina negli abissi della collettività e della considerazione. Tanto vale mettersi a cercare un’uscita. E l’uscita è il pozzo. Il pozzo, che dovremmo forse scrivere con la maiuscola di rispetto, è qualcosa che va giù, nel sottosuolo, il luogo della memoria, di quello che sfugge e si conserva. Trovare il pozzo vuol dire avere a che fare con qualcosa di nuovo, qualcosa che non avevi capito. Qualcosa che ti dà una chiara visione delle cose, perché è la Sapienza collettiva, è la presenza dello Spirito. Ecco perché questo Pozzo non lo cercano solo i musicisti, ma anche i filosofi. Il Pozzo ti dà accesso al Sapere assoluto. E un pozzo così, non vale la pena cercarlo?”.
Nel panorama culturale italiano lei è noto per i suoi Studi Hegeliani. Vogliamo approfondire il suo storico da filosofo?
“Siamo quello che abbiamo letto. I nostri studi, i nostri autori. Ma anche quello che abbiamo visto. I nostri film. I nostri maestri. Io non sarei stato quello che sono senza Paolo Vinci e Pierluigi Valenza, sono loro che mi hanno acceso la passione per Hegel. Certo, come maestro devo citare anche Antonio De Simone (ordinario di storia della filosofia contemporanea all’università di Urbino, ndr), che mi consiglia, mi stimola, mi consola. Detto questo non c’è uno storico da filosofo e uno da scrittore. C’è lo storico di un unico intellettuale che si agita, un operaio dello spirito che ama metter mattone su mattone e costruire cose. Non c’è un impegno teoretico, da un lato, e un’evasione letteraria, dall’altra. C’è un’unica evoluzione. Un unico percorso culturale”.
Quale messaggio il suo racconto vuole mandare al lettore? C'è una solo o più chiavi di lettura?
“Non è importante quello che parte, è importante quello che arriva. Se non arriva qualcosa, vuol dire che non era essenziale al lettore. Diciamo che ho voluto ci fossero tante cose dietro e dentro questo raccontare. Certo, non possiamo metterci qui a fare l’elenco. Però è bello parlare con chi lo ha letto e sentirsi dire: mi è piaciuto questo, mi è piaciuto quello. Cosa è il Pozzo se non la somma di tutto questo, la somma di questo, la somma di quello? Ecco, questa somma è il Pozzo vostro, quello che resta, il residuo, quello che rimane dentro il libro e nessuno riesce a cavar via, è il Pozzo mio”.
Un finale avvincente. Aveva immaginato altro? Una sorta di alternativa oppure quello è l'unico che la sua penna ha voluto per il libro?
“Al finale non diciamo cosa si scopre, perché altrimenti nessuno sente più bisogno di leggere il libro. Però qualcosa possiamo dire: c’è qualcosa per cui devi rivoltare tutto, ricominciare da capo. Hai creduto che dalla terra si dovesse arrivare al cielo; invece, è il cielo ad aver scritto le cose terrene. Non ho immaginato altro che questo. Anche perché quando mi siedo davanti al Mac per scrivere, ho già in testa quello che voglio scrivere. Non sono di quelli che attacca e non smette più. Io sono quello dei particolari. Amo il dettaglio, diciamo così”.
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