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"Il lobbista", in esclusiva su Affari un capitolo integrale del nuovo libro di Fabio Massa

"Il lobbista", in esclusiva su Affaritaliani.it il capitolo 15 del nuovo volume

Prima di andare in tribunale vado nello studio dell’avvocato. È in piena frenesia. “Ma che cazzo ti è successo?”, mi sputa addosso appena mi vede. Prepararsi per un colloquio con un magistrato non è una roba da niente.

“Ma che cazzo fai? Hai capito che è una roba importante?”

Allargo le braccia in modo ecumenico. Uno di quei gesti che potrebbero essere riassunti in “Sì, del resto è così», che non vuol dire niente, lascia tutto in sospeso. Ci sono parole che sono puntini di sospensione. Non hanno significato proprio perché chi le pronuncia non sa che cosa dire. D’altronde, non posso certo dire che stavo facendo l’amore, ieri sera, e che oggi il processo lo vedo in modo più distaccato, quasi serafico. Come se non me ne fregasse nulla. Come se stesse succedendo a un altro. È uno di quegli effetti tanto cinematografici, ma veri. È come se mi vedessi da lontano, chinato sul tavolone di mogano lucidissimo, concentrato a spiegare all’avvocato le mie ragioni. Ho molto da dire. Perché sì, sono colpevole di mille robe. Quelle cose le ho fatte davvero. Le triangolazioni, tutto il resto.

“Ho bisogno di soldi, mia moglie vuole mollarmi”, spiego. Ma no, non ho diffamato il giornalista. Non perché non lo avrei fatto, ma perché non ne ho avuto il tempo. Il legale sa che non sto mentendo. Non ne avrei ragione. In tutto questo, mi immagino di essere dal medico. Mi sta analizzando una gamba purulenta. Devo dire se mi fa male o no. Non si mente. Non si stringono i denti. Si dice solo la verità, come neanche davanti a un prete.

Mi viene in mente quella parrocchia di periferia, con il tetto di legno, a ricordare la capanna di Cristo. Brutta da impazzire, come tutte le chiese figlie degli architetti degli anni Settanta. Cemento e legno, diavolo e acquasanta. Il confessionale puzzava di sudore, d’estate. Le vecchie lasciavano la loro scia, come le lumache sui muretti, luccicante, viscida. Scie di odori stantii, di fisici in decomposizione, di denti marci. Entravo nel confessionale e dall’altra parte c’era il prete, con la stola che brillava nella luce fioca. Dicevo i miei peccati. Dopo averli finiti, li inventavo. Erano peccatucci. C’era qualcosa di sessuale, che creavo ogni volta. Una carezza impudica, una toccata al seno delle mie sorelle, o della cugina. Non erano veri peccati. Li creavo solo per immaginare arrossire il prete, dall’altra parte, a sentire un ragazzo parlare di polluzioni notturne e di liquidi corporei. Non esageravo, però. Rimanevo continente, e alla fine recitavo davvero tutte le Ave Marie e i Padre Nostri, con le ginocchia sulle panche dure, che segavano le rotule.

Ora invece non mento e non esagero. Non minimizzo. Dico la verità. Con una brutalità e una schiettezza che fanno dire al mio avvocato la frase che contraddistinguerà il processo: “Dobbiamo inventarci qualcosa o siamo morti”. Quindi, mi consiglia di negare tutto. Dire che non mi ricordo, per i reati commessi. Per quelli non commessi, invece, mi consiglia di dilungarmi. All’ora di pranzo ordiniamo dei tramezzini che ci porta un ragazzo del bar di sotto. Io ordino anche un caffè lungo. Sbadiglio spesso, tranquillo. Mentre sto addentando il pane morbido imbottito di maionese e di tonno mi fa la domanda fatidica: “Ma perché, Alberto, ti sei messo a infrangere la legge?”

Potrei spiegargli che il confine, mentre ci sei dentro, non ti sembra così labile. Che io in effetti non ho mai pensato di infrangere la legge. È un po’ come nel sesso. Ogni volta ti spingi un po’ più in là, e finisci nella perversione. Ma non sei una persona cattiva, se ti fai frustare, o se sei feticista. Semplicemente, hai fatto un tuo percorso. Tutti fanno un percorso. A volte virtuoso, a volte vizioso. Quasi sempre solitario, senza punti di riferimento, navigando in acque aperte e perdendo di vista la costa.

Tutti si muore in mare aperto, su barche troppo piccole e senza strumentazione.

Alcuni con vergogna. Io sarò tra questi.

Vorrei spiegargli, al legale, che non mi sono mai reso pienamente conto di infrangere la legge. Un po’ di evasione fiscale, va bene. Ma il sistema si basa sulla relazione. L’hanno chiamata economia relazionale. E nelle relazioni ci sono i favori, le inimicizie, le lotte. L’Italia non è divisa in guelfi e ghibellini. Magari. Le parti in lotta non sono mai solo due e le posizioni possono mutare ogni cinque minuti, secondo le convenienze e le simpatie. Io, in questo sistema relazionale, sono sempre stato un punto fermo di integrità. Non ho mai cambiato le carte in tavola. Sono stato bravo a pattinare sopra l’odio, sopra l’invidia. Allora guardo il mio legale. E allargo le braccia dicendo quello che chiunque, in una inchiesta, dice sempre, a torto o a ragione, non importa. Io non ho fatto niente.

 

“Dottore, io non ho fatto niente”, lo dico convinto al magistrato che mi interroga. È una pm che è appena arrivata da un’altra città. Vuole fare bella figura. Questa è la sua inchiesta bomba. C’è di tutto. Ci sono i politici, c’è la ’ndrangheta. Ci sono i lobbisti. Ci sono i politici. E poi ci sono i politici. E poi ci sono i politici. Il problema è che lei mi ha preso per un politico. “Mi pare che lei e i suoi referenti politici foste molto intimi”.

“Be’, certamente in certi casi c’era un rapporto di stima costruito negli anni”.

“Per questo le chiedevano aiuti, diciamo, al limite?”, mi fa.

“No, in effetti io non ho mai aiutato oltre il limite. Non penso di aver mai violato la legge. Poi sicuramente in alcuni casi avevamo un rapporto di grande fiducia”.

“Come quello che aveva con le due collaboratrici che ha mandato a incastrare il giornalista?”, provoca.

“In quel caso la vittima direi che sono io. Avevo un documento in mano che era stato contraffatto da uno dei miei clienti. Pensavo davvero di fare la cosa giusta. E comunque, non ho mandato nessuno a infangare il nome del giornalista. Se mi chiede se ho organizzato la trappola, direi sicuramente di sì. Ma se controlla il mio cellulare, cosa che avrà fatto, non c’è alcuna chiamata nei confronti del direttore che ha pubblicato il fatto. Anzi, se devo dire, la cosa mi ha anche innervosito”, dico.

“Perché?”

“Perché mi ha messo in una condizione oggettivamente difficile con le due collaboratrici che avevo attivato, che si sono arrabbiate e che hanno fatto recapitare delle foto intime a mia moglie, che per colpa loro adesso vuole divorziare”, spiego.

“Questi sono affari suoi”.

“Sì, certamente. Ma è per dire che dalla vicenda non ho tratto alcun vantaggio”.

“A parte il mucchio di soldi che ha avuto in nero”.

Taccio per un attimo, poi decido di rilanciare fregandomene dell’avvocato e dei suoi consigli. La mano del legale mi tocca il braccio un secondo, prima che attacchi.

“Immagino che il video l’abbia guardato mille volte. Io, ovviamente, sì. Se vede, i soldi cadono fuori dal libro. Si capisce chiaramente che non mi aspettavo quelle banconote. Non mi aspettavo il pagamento in nero. Che cosa avrei dovuto fare? Che cosa avrebbe fatto lei?” Errore domandare a lei. Errore mio.

“Avrei denunciato. Una cosa che lei non ha fatto”.

“Interessante. Quindi immagino abbia denunciato l’idraulico, o il meccanico, o l’elettricista che le hanno chiesto qualche volta il pagamento in nero. E magari non dà mai la mancia al ragazzo delle pizze o al fattorino, perché sono soldi in nero”, il mio avvocato mi tira una pedata da sotto al tavolo, ma non mi fermo. “Sì, avrei dovuto denunciare, e se mi processerete per questo mi dichiarerò colpevole e pagherò tutte le multe. Però poi dovreste confessare anche voi tutti i vostri peccati”.

“Si fermi. È meglio. Mi sta offendendo. Le ricordo che è lei a essere sotto inchiesta, non io. Io sono un servitore dello Stato. Lei faccia la persona seria”.

“Guardi che io sono serissimo. Semplicemente non sono ipocrita”.

“Mi sta dando dell’ipocrita? Lo capisce che lei è qui in qualità di indagato in un’inchiesta su criminalità organizzata e politica?”, non sorride più. Ha le labbra sottili contratte.

Guardo in alto. Lei continua a parlare ad alta voce. Quando torna il silenzio, riprendo a parlare.

“Ora, visto che io non sono un’ipocrita, e che prevedo il futuro, le dico che cosa succederà. Vorrei che fosse messo a verbale. Adesso questo interrogatorio verrà trascritto, domande e risposte. E poi lei lo darà in mano alla stampa, che lo pubblicherà titolando magari così: La verità del lobbista che incastrava i giornalisti. Nessuno dirà niente, e io non potrò difendermi perché nel frattempo avrete trovato mille connessioni che mi trascineranno in un processo che durerà anni e anni. E quando sarò definitivamente rovinato, l’azienda chiusa e dispersa, sarò probabilmente condannato a una pena lieve, con piccoli risarcimenti. Tutti si saranno scordati di tutto, salvo me. Io ricorderò questo interrogatorio, il giorno in cui la mia carriera è finita”.

“Non si azzardi a dire che diffonderò l’interrogatorio. Non lo farei mai”.

Io faccio silenzio un secondo. Poi parto con un aneddoto. Sono fatto così, è più forte di me.

“Guardi, le rivelo una storia che mi ha raccontato un amico della giudiziaria. Tutti facevano grandi gare per farsi dare le carte processuali. Molti le hanno dagli avvocati, ovviamente. E molti altri dai pm. Lo sanno tutti che è così. Si lavora in pool di giornalisti, in tribunale. Diverse squadre, le une contro le altre. Tuttavia, un bel giorno arriva un ragazzo, che – praticante per un giornale – inizia a battere tutti sul tempo. Ha tutto, e di tutto. Per mesi e mesi distrugge qualsiasi gerarchia all’interno del Palazzo di Giustizia. Non c’è pm o avvocato che non ce l’abbia con lui per aver passare fatti e informazioni che non doveva passare. Dopo mesi e mesi a osservarlo, finalmente trovano l’arcano. Ha una liaison con l’addetta alla copisteria. Che ogni volta fa due copie invece di una. Di ogni cosa. E prima di fare l’amore, a casa, gli consegna scatoloni di documenti che lui porta via sulla sua Fiat 128”, dico sorridendo.

Lei mi guarda arcigna. Mi odia. Mi odia perché dico la verità, e perché le ho raccontato una facezia. Ma soprattutto mi odia perché se non mi odiasse non potrebbe fare il suo lavoro, stare su le notti coordinare decine di sbirri, e combattere con avvocati che guadagnano più di lei e vivono meglio di lei. Mi odia, ed è giusto così, perché senza questo sentimento non potrebbe rincorrere i ladri. È questa l’energia, il glucosio che muove e alimenta le sue gambe scattanti. Il problema è che io non sono un ladro da inseguire di corsa.

“Può andare. Ovviamente non deve lasciare l’Italia. Il suo avvocato sa già tutto”. Si alza senza darmi la mano ed esce. Io rimango là, con la mano tesa. Con il vestito buono. Fuori ci sono i giornalisti, che mi assalteranno. Non mi interessa molto. Non dico una parola. Silenzio.

È proprio in quel giorno, caldissimo, che inizia la cura del silenzio. Il silenzio della Procura e contemporaneamente il chiasso sui giornali. Appena uscito ci sono i soliti dieci del Palazzo di Giustizia. C’è anche quello che chiamo “l’agrimensore”. È un tipo alto, un lungagnone con gli occhiali spessi. È uno di quelli che sta da talmente tanto tempo a Palazzo di Giustizia da averne assunto le tinte, e da esservi integrato addirittura con la scrittura, che anno dopo anno si è fatta più precisa, più tecnica, meno comprensibile per i profani e assolutamente estatica per gli iniziati ai segreti casi di faldoni e nappe.

Tutti vanno da lui. È una autorità. Con lui si può parlare, tutti si fidano, tutti chiacchierano.

Alla fine sa più lui di tutti gli altri, perché è un enorme recipiente umano nel quale finisce il sunto migliore, la verità, la conoscenza. I suoi neuroni sono le connessioni. Lo conosco di fama, perché quando scrive lui è come se avesse scritto un oracolo. Che ha vagliato, processato, dato il giudizio. E secondo lui, incredibilmente, io sono innocente. Me lo fa capire, o forse sono io che voglio capire questo. Mi ripeto che le sue domande benevole, quel mio prendermi a braccetto appena uscito dall’aula, dopo la tonnara con gli altri colleghi, vogliono dire che non ho colpe, che sono assolto. Ho fatto training autogeno, prima di uscire. Come fanno i marines, ho preso cinque respiri profondi. Mi hanno assalito, ma con gentilezza. Ero circondato, in mezzo alla gente, e mentre rispondevo che no, ero innocente, non ero colpevole, che no, non avevo ammesso nulla, che sì, l’interrogatorio aveva chiarito tutto e che mi aspettavo buone notizie fin da subito anche se sapevo perfettamente che non sarebbero mai arrivate, che i miei clienti mi erano solidali, che l’azienda non stava per fallire, in realtà pensavo e non dicevo che lo era già, colpevole. Mentre pronunciavo questa ridda di dichiarazioni false, menzognere, senza un istante di verità che fosse uno, mi andava avanti e indietro nel cervelletto quella frase di Conrad: “Viviamo come sogniamo. Soli”. Per me questo è un sogno, un brutto sogno, e tutto il resto comparse.

L’avvocato mi abbraccia, mi bacia, dopo avermi lasciato in taxi davanti a casa.

“Stai tranquillo”, mi dice, “vedrai che ti tiro fuori io da questo pasticcio. Pensa solo a lavorare e fatturare”.

È un buon consiglio. Ma io voglio solo rifare l’amore e risentirmi amato. Godere. Vado in ufficio per questo. Ma la mia assistente non c’è. Mi dicono che non si è presentata. Scrutano il mio volto come a trovare una ferita, una cicatrice, forse del sangue rattrappito sulla mia camicia che invece è immacolata. Invece niente. Non c’è foro di entrata, non c’è foro di uscita. Dico a tutti di stare tranquilli e di lavorare. “È una cazzata, la pm ha capito tutto perfettamente”. Mi siedo al mio tavolo, guardo il cellulare. Non c’è nessun messaggio di Viola. Provo a chiamarla, ma non mi risponde. Quando arriva in ufficio, è un po’ sconvolta. È perfettamente in ordine, ma si vede che ha il mare mosso dentro. Viene a salutarmi. Che poi, non è proprio un saluto. La chiamerei viceversa una coltellata.

“Non penserai che si replicherà, vero?”, mi dice a freddo.

Io sorrido, butto là la battuta: “Veramente sì, sempre che non sia stato un gesto di pietà”.

Lei mi gela: “Esattamente quello è stato: pietà. Però grazie perché il piacere è stato reciproco”.

Poi si gira, bellissima, e chiude la porta. Mi sento bruciare dietro le scapole, dove è entrato il coltello. È quello che non vedi arrivare, che fa più male. Mi sento tradito pur senza aver nessun legame di fedeltà con Viola. Sono forse quei flussi di pensiero così veloci, quelle strane sinapsi che radicano nei nostri cuori e che si infiammano, che ci fanno male. Rapporti che esistono senza esistere. Gli amori per la compagna di banco che neppure sa che la ami. Lo sguardo speranzoso all’amica in università. Quella che compulsi tutte le mattine sbirciando sopra la Gazzetta dello Sport. E che ti immagini avvinghiata a te in romantici limoni nel chiostro di via Festa del Perdono. Poi, magari, torni dalla tua ragazza. Ma quella sulla quale hai fantasticato per tanto tempo ti rimane là, nella testa, fin quando non svanisce nelle nebbie del ricordo. E se per caso si fidanza prima di scomparire dalla memoria, ecco il coltellaccio maledetto che entra tra le scapole, proprio dove c’è la parte molle, appena a fianco della vertebra.

Viola se ne è andata così.

Io mi alzo, non prendo neanche la borsa.

Scappo in ascensore, corro al quartiere cinese. Corro sudato, già sudato, lungo un ballatoio puzzolente. La tipa non mi riconosce affatto. Per loro noi siamo tutti uguali, proprio come loro sono tutte uguali per noi. Buchi e aste, roba da bimbi piccoli. Finito. Zero piacere. Torno fuori con Viola più stampata che mai nella mente.

Scappo fuori, entro nel cimitero monumentale, ma è insopportabile passeggiare tra le tombe. Quel che mi rilassava ora mi uccide. Mi trovo sul marciapiede verso casa. Una volta arrivato mi levo le scarpe, tiro fuori la camicia dai pantaloni eleganti. Fuori non accenna a imbrunire, e i bagliori magnifici dell’estate che entra nella parte cadente, quella di agosto, illuminano i bicchieri che continuo a riempire con quel che c’è in casa. Un po’ di tutto, mischiando gli spiriti, facendomi del male, cercando l’urto del vomito, e il mal di testa, e la tristezza. Come se questo potesse far tornare Viola, e scacciare la pm dalla mia mente. Come se questo mi potesse convincere che in fondo in fondo io non sono colpevole, ma innocente. Innocentissimo.

Lo vorrei dire a mio figlio, che i suoi compagni sono degli stronzi. Lo vorrei urlare. Che sono innocente, anche se non lo sono. Sono perfettamente conscio del meccanismo di autodifesa che fa sì che ci convinciamo che non è mai colpa nostra. Anche quando lo è. Perché quasi sempre è colpa nostra. E quasi mai è colpa degli altri.

Siamo noi il centro del mondo: nostra è la responsabilità del globo. E mentre elaboro questa tremenda filosofia del pessimismo cosmico, mi accascio riverso sul pavimento.

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