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La disciplina dell’imperfezione. La recensione del libro di Giulio Costa
La disciplina dell’imperfezione - Navigare tra le nuove fragilità contemporanee: un libro controcorrente
La disciplina dell’imperfezione. Navigare tra le nuove fragilità contemporanee (di Giulio Costa). La recensione di Affaritaliani.it
Un libro controcorrente che lascia presagire un nuovo modo di essere e comportarsi in una società contemporanea che di converso vorrebbe individui perfetti e forti. Giulio Costa con “La disciplina dell’imperfezione. Navigare tra le nuove fragilità contemporanee” per i tipi di Sperling & Kupfer indica con modelli clinici e riferimenti cinematografici e musicali dell’oggi come essere sé stessi senza il timore di apparire fragili.Un dialogo clinico sulla “fragilità” intrapreso dallo psichiatra Eugenio Borgna che in qualche modo Costa ripercorre soffermandosi sulla necessità di riconoscere tali limiti indispensabili per crescere e migliorare il proprio Io e non reprimerli. Nei bambini ad esempio - sottolinea l’Autore - possono portare «disturbi del comportamento, deficit di attenzione e iperattività che sembrano una ribellione silenziosa al perfezionismo a loro richiesto da famiglie, maestre, allenatori o coetanei. Sintomi che sembrano urlare: «Guardami, sono imperfetta, e allora!?», come fa Gaia, la giovane protagonista de L’acqua del lago non è mai dolce». (p. 20).Si tratta, inoltre, di un percorso di riconoscimento di ciascun essere umano che attraverso il dolore, il buio, impara a conoscersi e a rispettarsi con le sue fragilità, il suo essere imperfetto e disciplina anche l’altro a volergli bene e ad accettarlo.
Così leggiamo: «È tempo quindi di ribellarci al conformismo che pretende che ognuno di noi debba cavarsela da solo, chiuso nel proprio personale Magic Bus, che non libera ma diventa prigione» (p. 31).“La disciplina dell’imperfezione” è un agile vademecum rivolto a tutti perché - come scrive Annalisa Cuzzocrea nella copertina – «è un saggio che non nasconde ferite e cicatrici, le rivela. E facendolo ci permette di curarle», perdipiù, a non farsi colpire dalla “sindrome del benessere” e dalla perfomance impeccabile. Le società che dalla modernità all’odierno presente si sono succedute hanno dimostrato di possedere caratteristiche oggettivanti e spersonalizzanti, non appartenenti a quello che è il codice etico dell’anima e del corpo di ciascun individuo. Sicché è opportuno per difendersi dai narcisismi dell’Io, dai solipsismi delle individualità, da un io che si svuota senza un tu, così parimenti il ‘noi’ senza ‘io-tu’ si inaridisce, parafrasando Vittorio Lingiardi, non sembra marginale, semmai essenziale diffondere la “cultura della cura”, ovvero consolidare le relazioni, gli incontri, perché è nell’altro e con l’altro che si possono condividere fragilità e audacia, paura e coraggio, insegnando a curare la relazione, a prendersi cura di sé e dell’altro. Conoscersi e conoscere. Ed è anche a questo tema che Giulio Costa dedica uno spazio centrale del saggio: “Dalla cura per la relazione alla relazione che cura”, ovvero «Farsi portavoce di una cultura della cura non significa insegnare pratiche o tecniche, ma coltivare nell’Altro una «postura», fatta di attenzione esclusiva, ascolto e comprensione» (pp. 72-73).
Al riguardo, include il luogo di cura par excellence: la “scuola” che non è solo il luogo in cui si trasmettono contenuti e nozioni, bensì “una comunità in cui i figli devono essere immersi”, qui il bambino nasce e cresce come soggetto sociale per ottenere successivamente il riconoscimento in società. Da qui come propagazioni, emanazioni di illuminanti idee, Costa riflette sull’etica della perdita, sul ruolo della donna nel contemporaneo e accenna alla metamorfosi della famiglia dove la psicologia ha ampiamente dimostrato che la famiglia «va oltre la relazione tra consanguinei e che la genitorialità non è esperienza esclusiva della biologia, una donna che sceglie di non essere madre è una donna» (p. 107). Sembra ovvio ciò ma a quanto pare è necessario ripetere, evidenziare, sottolineare ogni cosa perché d’improvviso ciò che era un dato certo può mutare come accade maneggiando il ‘cubo di Rubik’: è sufficiente un gioco di mani per cambiare e generare nuove combinazioni che in una condizione reale non è dato sapere dove ci condurranno. O forse, sì!?!