Sindrome dell'Intestino Corto (SIC): scopriamo difficoltà e metodi di cura
Intervista di affaritaliani.it al Prof. Franco Contaldo, ordinario di medicina interna dell’Università Federico II° di Napoli
Sindrome dell'Intestino Corto (SIC): alla scoperta di una malattia tanto poco conosciuta quanto pesante
Ogni anno in Italia si registrano dai 3 ai 5 nuovi casi di Sindrome dell’Intestino Corto (SIC) ogni milione di abitante. Nel resto dell’Occidente, l’incidenza è pressoché la stessa.
Ma di che genere di malattia si tratta? affaritaliani.it lo ha chiesto a Franco Contaldo, professore ordinario di medicina interna, dell’Università Federico II° di Napoli e grande esperto della materia.
“La Sindrome dell’Intestino Corto è una patologia secondaria alla rimozione delle maggior parte dell’intestino tenue, ovvero la parte dell’intestino nella quale si completa la scomposizione chimica degli alimenti e dove avviene l'assorbimento di quasi tutte le sostanze nutritive. Quando si procede alla rimozione per via chirurgica, l’effetto collaterale è che si impedisce il normale processo di nutrizione della persona”.
Perché, allora, ci si trova costretti a procedere in questa direzione? “Può accadere per diverse cause, come l’infarto intestinale, il morbo di Crohn (una severa e pericolosa malattia infiammatoria cronica dell’apparato digerente), nonché altre patologie simili e altrettanto complesse. La principale difficoltà nella cura di questa patologia è proprio il fatto che essa si sovrappone a una malattia pregressa: a quella, cioè, che ha portato all’asportazione del tratto di intestino”.
“E’ impegnativa soprattutto l’assistenza nei confronti dei pazienti, per i quali, sin dall’inizio della loro esperienza, diventa fondamentale la nutrizione artificiale. Essa è legata anche alla lunghezza del tratto di intestino conservato: se è meno di 40/45 cm, è necessario ricorrere alla nutrizione parentelare, per tutto il resto della vita del soggetto. In casi meno severi, c’è invece la possibilità di tornare alla nutrizione orale, sebbene assistita, da sola o abbinata alla nutrizione parenterale”.
La nutrizione parenterale consiste nella somministrazione di nutrienti direttamente per via venosa, scavalcando l’apparto digerente mediante il posizionamento di un catetere centrale che consente di far assimilare al paziente una miscela di sostanze nutritive adeguate e ad alta osmolarità, ovvero particolarmente dense, che per via venosa non potrebbero essere assunte.
Tuttavia, i rischi connessi a tale pratica sono diversi, a partire dal fatto che in primo luogo bisogna realizzare un insieme adeguato ed equilibrato di sostanze nutritive, cosa che – come spiega il Prof. Contaldo – “può essere difficile se c’è comorbilità (ovvero presenza di più malattie nello stesso paziente). Ci deve essere inoltre equilibrio idrico ed elettrolitico, nonché metabolico, e bisogna prestare la massima attenzione alla gestione dei cateteri, per evitare embolie settiche (ovvero legate ad infezioni) che possono avere ripercussioni molto gravi”.
Per questo motivo, si tratta di pazienti da curare in centri specialistici. Il ritorno a casa è possibile solo in presenza di adeguata assistenza sul territorio, cosa purtroppo non scontata, anche se poi “la corretta assistenza garantisce al paziente una piena autonomia di vita, se essa non è compromessa dalla patologia originaria o da un’altra possibile malattia”, conclude il Prof. Contaldo.