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Digital Tax, il dibattito su Affaritaliani.it
La digital tax continua a fare discutere. E lo farà da qui al 2017, quando Matteo Renzi ha promesso di approvarla. La norma (ancora da definire) ha sollevato diverse critiche. Tra le quali, su Affaritaliani.it, quella di Dario Stevanato. Il professore di diritto tributario dell'Università di Trieste ha definito la legge “un'arma spuntata”, perché “i trattati internazionali prevalgono sulle norme interne”. In altre parole, gli accordi bilaterali offrirebbero il fianco ai ricorsi delle multinazionali. Con effetti modesti sul gettito.
Sulla questione è tornato Stefano Quintarelli, firmatario della legge sulla quale pare possa impiantarsi la digital tax. Quintarelli difende la norma passando in rassegna alcune critiche. E, a proposito di quelle avanzate da Stevanato, scrive sul suo tumblr:
“C’è chi dice che…la norma sarebbe contro i trattati OCSE. È il punto più complesso, che merita qualche approfondimento:
“La normativa italiana dispone già oggi, che, pur in assenza di una stabile organizzazione nel territorio italiano, i redditi conseguiti siano da considerare come imponibili nello Stato in cui la prestazione è effettuata, anziché in quello di residenza, se è possibile individuare sul territorio italiano una stabile organizzazione occulta.
Infatti già oggi, come noto, sono state sollevate varie contestazioni, per centinaia di milioni di Euro, a diverse multinazionali.
È la stessa OCSE che invita gli Stati Membri ad adottare comuni misure di sfavore contro queste pianificazioni, fino alla “denuncia” formale delle Convenzioni contro le doppie imposizioni eventualmente vigenti.
L’art. 24, par. 4, del modello OCSE (a cui tutti i trattati si conformano) prevede, che “le disposizioni dei paragrafi precedenti del presente articolo non pregiudicano l’applicazione delle disposizioni interne per pervenire l’evasione e l’elusione fiscale”.
Andando a leggere quasi tutte le convenzioni, viene espressamente stabilito che il Governo della Repubblica italiana e l’altro Governo “desiderando stipulare una convenzione per evitare le doppie imposizioni e prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito, hanno convenuto quanto segue …”. La prevenzione delle evasioni fiscali è dunque del tutto in linea con i principi degli accordi internazionali. Anzi, ne rappresenta il presupposto imprescindibile.
La sentenza n. 4272 del 23 febbraio 2010 della Corte di Cassazione, Sez. tributaria, ha stabilito che è obbligatorio verificare sempre l’eventuale uso distorto ed abuso delle Convenzioni in funzione di pianificazione fiscale aggressiva.
Sempre l’OCSE recita:che: [laddove] “le disposizioni contro l’abuso fiscale siano incardinate alle regole fondamentali della legislazione nazionale che determinano i fatti generatori dell’imposta, le stesse non sono influenzate dalle convenzioni in quanto dette regole sono estranee alla materia considerata dalle convenzioni fiscali. Pertanto di regola, non vi sarà conflitto tra tali disposizioni e le disposizioni delle convenzioni fiscali” (Paragrafo 9.2 del Commentario all’art. 1 del Modello di Convenzione Ocse).
Nessuno è perfetto e tutti sbagliamo; mi sarebbe più utile se commenti di proffessionisti stimati entrassero nel merito e nel dettaglio, non si limitassero ad affermazioni generiche ideologiche o di principio.
anche perchè il percorso tra una proposta ed una norma è molto lungo e tutto può essere migliorato, anche questa proposta che ricalca la linea delle proposte OCSE.
Mi segnala il sen. Mucchetti gli stessi principi erano previsti in una serie di emendamenti che propose alla finanziaria dell’anno scorso".
A poche ore di distanza, è arrivato un post su giustiziafiscale.com di Dario Stevanato, che torna sulla questione:
La relazione accompagnatoria alla proposta di legge di iniziativa dei deputati Quintarelli, Sottanelli e altri, confonde due questioni distinte, cioè la definizione giuridico-normativa di stabile organizzazione, e la riscontrabilità in punto di fatto dell’esistenza di una stabile organizzazione dell’impresa estera in Italia. Sotto il primo profilo, propone una integrazione del concetto di stabile organizzazione attraverso una modifica all’art. 162 del Tuir, tra l’altro con un nuovo comma secondo cui “Si considera in ogni caso sussistente una stabile organizzazione in Italia qualora si realizzi una presenza continuativa di attività online riconducibili all’impresa non residente, per un periodo non inferiore a sei mesi, tale da generare nel medesimo periodo flussi di pagamenti a suo favore, comunque motivati, in misura complessivamente non inferiore a cinque milioni di euro”.
Norma, quest’ultima, che non potrebbe certo prevalere rispetto alle definizioni pattizie, e che dunque in presenza di un trattato bilaterale non potrebbe trovare applicazione.
Sotto il secondo profilo, viene evocata una fantomatica “stabile organizzazione occulta” delle imprese operanti nel settore del commercio elettronico, richiamando precedenti vicende che però si riferivano a effettive presenze materiali e personali nel territorio italiano, come nel caso Phillip Morris in cui era stato contestato lo sviamento delle strutture della subsidiary italiana della capogruppo americana. Peraltro, se si ritiene che l’operatività via web e il commercio elettronico diretto possa dar luogo a una stabile organizzazione occulta, così come questa viene definita dai trattati, la possibilità di accertarla esiste già oggi, senza alcun bisogno di modifiche delle norme domestiche (cui i trattati restano insensibili), che dunque appaiono contraddittorie rispetto alla bizzarra idea – di cui si parla nella relazione – di una “tassa antielusione”.
Anche perché si trascura che la intassabilità di redditi non prodotti nel territorio attraverso una stabile organizzazione “fisica”, materiale e/o personale, non denota affatto un comportamento elusivo, basandosi su assetti consolidati secondo cui i redditi dell’impresa meramente esportatrice non possono essere tassati nel paese di destinazione dei propri prodotti. Regola, quest’ultima, che storicamente è sorta proprio per proteggere i Paesi più sviluppati (in primis europei) che esportavano i propri prodotti in altri territori economicamente meno sviluppati, e che ora rischia di ritorcersi proprio nei loro confronti, essendo i primi diventati luoghi di consumo e non più di produzione del reddito. Voglio dire, insomma, che il commercio elettronico diretto non fa sorgere nello Stato del consumo dei prodotti una stabile organizzazione non perché vi sia una elusione delle regole esistenti, ma semmai perché sono tali regole ad essere obsolete. E se tali regole si vogliono cambiare, lo si deve fare in sede pattizia, cioè con accordi internazionali.
L’impressione, in definitiva, anche per altre ragioni che non ho qui il tempo di sviluppare, è che quella testè commentata sia una proposta estemporanea, probabilmente dettata da ragioni di comunicazione politico-mediatica e confezionata senza una sufficiente dimestichezza con i meccanismi della fiscalità internazionale (e della fiscalità in genere), che cerca un po’ maldestramente di superare il problema della compatibilità coi trattati evocando a sproposito il tema delle “stabili” occulte, in realtà modificando la norma interna che definisce il concetto di stabile organizzazione, modifica che però non potrà produrre effetti per ragioni che ormai dovrebbero essere chiare.