MediaTech

Timothée Chalamet: "Cinque anni e mezzo per preparare A Complete Unknown. Bob Dylan? Non mi ha voluto incontrare..."

Intervista a Timothée Chalamet, nominato all’Oscar come miglior attore protagonista

di Oriana Maerini

Ad Affari Timothée Chalamet, nominato all’Oscar come miglior attore protagonista

Dopo la premiere londinese, è arrivato a Roma  “A complete unknown”, (nelle sale dal 23 gennaio) il film che narra la vita e l’arte di Bob Dylan quando non era già più Robert Allen Zimmerman (il suo vero nome) ma non era ancora il musicista conosciuto in tutto il mondo, autore di canzoni che hanno fatto la storia come Blowin’ in the wind e Like a Rolling stones di cui il titolo cita un verso. “Like a complete unknown, like a Rolling stones”.

Affaritaliani.it ha intervistato Timothée Chalamet, l’attore americano con cittadinanza francese,- protagonista del film nei panni di Bob Dylan,- Chalamet, attore di riferimento della sua generazione scoperto da Luca Guadagnino, che si è misurato con ruoli diversissimi: dalla fantascienza di Dune al musical di Wonka. Con questa interpretazione il giovane attore è candidato agli Oscar come migliore protagonista. Il Biopic su Bob Dylan, infatti, ha totalizzato nell’insieme otto candidature (Edward Mangold come regista, Edward Norton, Timothée Chalamet, Monica Barbaro come attori. Miglior sceneggiatura non originale (in quanto tratto da un libro), costumi originali e come miglior sonoro.

Neil Young ha scritto delle parole bellissime sul film nel suo blog. C’è qualche altro endorsement alla tua interpretazione che ti ha colpito?

No, ma sto ancora aspettando che si esprima Francesco Totti in merito! (ride). Diciamo che gli apprezzamenti che mi hanno più toccato sono quelli del pubblico di Dylan, che se lo ricorda negli anni ’60, che mi hanno detto di essersi emozionati rivedendolo attraverso la mia interpretazione.

Ma l’Endorsement più famoso l’ho ricevuto da di Bob Dylan:  «Timmy è un attore brillante, quindi sono certo che sarà perfettamente credibile a interpretare me»., diretto da James Mangold racconta, nei primi anni Sessanta, l'ascesa alla fama del giovane Dylan, interpretato dal divo Chalamet, che con questa interpretazione punta dritto all'Oscar.

James Mangold, già regista del biopic su Johnny Cash “Quando l’amore brucia l’anima”, porta, ora, sul grande schermo i primi anni della vita di Dylan da quando arriva a New York con il ritaglio di giornale nella tasca in cui si dà notizia del ricovero di Woody Guthrie, il suo idolo, fino al concerto di Newport del 1965 quando Dylan portò, creando panico tra i puristi del folk, la chitarra elettrica sul palco del festival creato da Joan Baez.

Quanto si è preparato per interpretare Dylan?

“Ci sono voluti cinque anni e mezzo di preparazione per questo film, un tempo che ha dato fiducia in me stesso rispetto al materiale di partenza. Abbiamo dato il 150% di noi stessi, sono orgogliosissimo del lavoro di grande concentrazione che abbiamo messo nel progetto. D’altronde avevo due mesi e mezzo per essere Dylan e il resto della vita per essere me stesso! Sono orgoglioso di quello che ho fatto, davvero.”

Che indicazioni le ha suggerito il regista?

Il regista è veramente fantastico un grande psicoterapeuta ed ha dato questa indicazione agli attori: “abbandonate la storia, il modo rispetto alla collocazione della nostra cultura, semplicemente è la storia di una persona giovane che incontra una persona che ammira e che lo appoggia come le persone che si innamorano anche se sono in concorrenza: questi sono i rapporti umani fondamentali. Questo è stato estremamente liberatorio per tutti gli attori: liberarci dal peso di tutto ciò a cui ho fatto riferimento. E’ fantastico avere la persona al timone che ti dice di lasciar andare.

Con questo film vuole lanciare un messaggio a giovani?

“Il film racconta una storia di formazione, il modo in cui un artista si è creato da zero, con le canzoni, la sua poetica, la determinazione a infrangere le barriere tra i generi, ma anche con le storie inventate sul suo passato, come quella della sua esperienza in un circo. Questo mi auguro che arrivi ai ragazzi

Non so che tipo di lezione culturale sociale e politica dai primi lavori di Dylan sia da cogliere per i giovani oggi; forse quello che rimane è l’idea di trovare il proprio spirito creativo, il proprio nome e la propria arte. Dylan aveva tante storie da raccontare, ha cambiato vari nomi, una lezione che possiamo apprendere è quella di non farsi limitare da chi si è o si è stato”. Credo che i giovani debbano imparare a non rinunciare, ad autocrearsi proprio come ha fatto Dylan, inventarsi, non farsi limitare da chi si è o si è stato: trovare il proprio spirito creativo, il proprio nome e propria arte. Dylan aveva tante storie da raccontare, ha cambiato vari nomi».

Per prepararsi al ruolo ha incontrato Dylan?

“Bob Dylan non mi ha voluto incontrare per A Complete Unknown e capisco perché”. A me piace fare il lavoro di promozione dei miei film, ma ha un impatto sul modo in cui ti vedi. Credo sia per questo che Bob Dylan non mi abbia voluto incontrare, per lui era importante la sua arte.

Al contrario  Monica Barbaro, l’attrice che, per interpretare il ruolo di  Joan Baez, di cui nel film si racconta la tumultuosa relazione con il musicista - ha incontrato la cantautrice folk. “Quando si interpreta un personaggio così è difficile non avere sempre in mente la volontà di essere il più accurata possibile nel ritrarlo, perché ci sono i suoi fans ai quali vuoi essere riconoscibile, ma ad un certo punto è stata la stessa Joan a dire: “se cerchi di fare qualcosa di perfetto lo privi di quello che è interessante.” Siamo stati incoraggiati a non fare una biografia, perché lei è viva e può parlare di sé, abbiamo avuto la libertà di essere umani e fidarci della nostra preparazione.

Come si è preparato al ruolo del grande musicista?

 “Per prepararmi ho attinto a tutti i video che ha trovato su YouTube. “Vent’anni fa ci sarebbe voluto un anno di lavoro per mettere insieme interviste, concerti, mentre oggi si può trovare tutto online, anche il concerto in un bar di Berlino del ‘63. È sorprendente quanto puoi avere con facilità accesso a tutto il materiale, è mi è stato molto utile perché mi ha permesso di ingerirlo.”

E’ vero che il regista è stato un ottimo psicoterapeuta per gli attori?

Si, il nostro regista, che è un ottimo psicoterapeuta, ci ha detto: “‘abbandonate la storia, dimenticatevi la fama, raccontate la storia di un giovane che incontra uno che ammira enormemente e allo stesso tempo in qualche modo è in concorrenza con lui, dimentichiamoci del resto”.

A questo proposito che tipo di lavoro ha messo in atto il regista sugli attori?

«Ci sono due tipi di lavoro per gli attori in questo film: quello esteriore, che riguarda l'aspetto, la voce, e la gestualità; e poi quello interiore. Il regista aveva paura che il primo, visto che è così affascinante - parliamo di queste persone e degli anni Sessanta - prendesse il sopravvento sulla parte interiore e, per questo ha cercato per tutte le riprese di stare attento a questo bilanciamento».

Il regista ha scritto per me una battuta: Bob dice che le persone ricordano solo quello che vogliono del passato. Da decenni si parla molto di Dylan come un cantastorie così James crede che il compito del regista sia proprio quello di mettere in dubbio affermazioni banali, ovvie che siamo solito fare rispetto al soggetto del film. Credo che nella vita mentiamo tutti, o quantomeno enfatizziamo i nostri successi e tendiamo a dimenticarci i fallimenti, o a ridurne l’impatto.

Il regista James Mangold è stato molto gentile con te?

Non sempre. A volte è stato anche un po’ duro apostrofandomi in questo modo: “Smettila cazzo di raccontarmi cosa è successo, non sto facendo una pagina di Wikipedia, sto facendo un film!”. È stato molto utile per tirarmi fuori dalle mie insicurezze.

A Complete Unknown è un film che parla di un giovane ragazzo che parla di grandi ideali. Sei tu stesso molto giovane, pensi che questo personaggio possa ispirare la tua generazione?

Sinceramente non lo so. Bob Dylan ha sicuramente un grande impatto culturale anche oggi, a decenni di distanza di quando interpretò per la prima volta le sue canzoni: questo a testamento dell’importanza delle sue composizioni. Eppure non posso che chiedermi, considerando il cinismo della nostra epoca, come verrebbe accolto un cantautore, un’artista che si presentasse sulla scena con un messaggio politico così esplicito. Magari qualcuno lo fa, ma credo che da parte di molti verrebbe accolto in maniera respingente.

Dagli anni 60 ai giorni nostri c’è un grande divario per la sensibilità culturale?

Si, credo che oggi viviamo in un periodo di anestesia culturale: la musica, i film…tutto viene creato per far passare il tempo, senza disturbarci, incontrando esattamente le nostre aspettative. All’epoca, negli anni 60, il pubblico voleva essere sorpreso, oggi, invece, ti chiede di anestetizzarlo. Oggi è difficile realizzare qualcosa che piaccia al pubblico sfidandolo, senza anestetizzarlo.