MediaTech
Trump e il ban dei social? "Tutto nasce dall'assenza di regole e normative"
L'intervista di Affaritaliani.it al Prof. Alberto Gambino
Si continua a parlare della sospensione permanente dell'account personale di Donald Trump da Twitter. "Le nostre regole di interesse pubblico esistono per consentire alle persone di ascoltare direttamente ciò che i funzionari eletti e i leader politici hanno da dire" ha spiegato la società della Silicon Valley. "Tuttavia, abbiamo chiarito per anni che questi account non sono completamente al di sopra delle nostre regole e che non possono utilizzare Twitter per incitare alla violenza, tra le altre cose". Quasi a effetto domino poi, anche Facebook e Instagram hanno chiuso i profili di Trump, così Snapchat, Twitch e altri. Affaritaliani.it ha intervistato Alberto Gambino, Prorettore dell’Università Europea di Roma e Presidente dell’Italian Academy of the Internet Code cercando di fare luce su alcuni punti caldi del dibattito in corso.
Secondo lei i social hanno diritto a silenziare un profilo ufficiale, quello di Trump?
"Vede, lei utilizza, come tutti del resto, l’espressione 'social' per indicare servizi di informazione e di comunicazione, ma è appunto questo il problema: Twitter, Facebook, Instagram non sono semplici strumenti di socializzazione come sembra fare intendere la parola ma sono veri e propri strumenti di diffusione di notizie, informazioni, immagini. Pensi che quasi dieci anni fa toccò a me essere il primo italiano a bruciare le agenzie di stampa nel dare una notizia di prim’ordine tramite un social: battei su twitter la notizia del decesso di un Presidente delle Repubblica, cui ero molto legato, quasi un’ora prima dell’Ansa. Oggi i social “silenziano” Trump, è come se un quotidiano ritenesse di censurare alcune notizie, omettendole. Libero di farlo? Sì. buona informazione? No. Altro è il tema del cosiddetto hate speech, ma in questo caso si blocca – selettivamente – la singola espressione d’odio e violenza, non si chiude un account, altrimenti muore la democrazia".
Merkel ha definito "problematico" il ban di Trump da Twitter, in quanto se “è possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore", non lo può essere "per decisione di un management aziendale”. E il ministro francese Le Maire ha definito “sconvolgente" che “sia la piattaforma social a chiudere, perché la regolamentazione dei giganti digitali non può essere fatta dalla stessa oligarchia digitale”. Cosa ne pensa? Quali sono le normative che regolano i social?
"Francamente, con tutto il rispetto per il calibro degli statisti che ha menzionato, appare come il pianto del coccodrillo, metafora efficacissima per chi sino a oggi si è disinteressato del problema. I social sono cresciuti piano piano e oggi hanno un impatto ben maggiore dei mezzi di informazione tradizionali, eppure non è stata prevista alcuna regola, alcuna disciplina normativa, alcuno strumento peculiare di garanzia per gli utenti come invece avviene per la stampa tradizionale. Si lascia all’autoregolazione delle piattaforme e alla sporadica giurisprudenza dei magistrati che di tanto in tanto applicano per analogia le norme sull’informazione".
I social svolgono un servizio pubblico? Sono nati come “strumenti”, ma ora forse sembra, via la maschera, si stiano rivelando editori?
"Certamente i social svolgono un servizio pubblico, nel senso che assumono un ruolo di attori primari nell’informazione della collettività. Si badi bene che la concezione giuridica del servizio pubblico da decenni non è più ancorata alla titolarità del mezzo di comunicazione, dello Stato o di privati, ma alla funzione che esso svolge. L’articolo 21 della Carta costituzionale non assegna soltanto il diritto a informare ma anche e soprattutto a essere informati: in ciò sta la declinazione più garantista della libertà di manifestazione del pensiero. Poco importa che i social siano editori di loro stessi, ciò che risulta decisivo è piuttosto la trasparenza del processo decisionale nel selezionare e addirittura dare o non dare notizie. Il concetto di pubblica fede del ventunesimo secolo merita di essere ripensato: non è più un sigillo o un timbro amministrativo a dare attendibilità ad una comunicazione ma – purtroppo – è l’audience. Tanto più c’è ascolto, tanto più la percezione dei consociati è che le informazioni siano affidabili. Torniamo ad educare noi stessi e a formare i nostri giovani alla critica, vero sale della democrazia e antidoto inossidabile alle derive autoritarie".
C'è chi riflette sulla decisione di allontanare Trump che arriva solo a fine mandato, e chi fa notare che presidenti o leader di altri paesi non democratici continuano a usare Twitter e altre piattaforme. Cosa risponderebbe?
Diceva Abba Eban, un raffinato diplomatico israeliano del secolo scorso, che il consenso è il modo con cui tutti sono d’accordo nell’affermare collettivamente ciò che nessuno crede individualmente. La giustizia non segue questo schema, ma ci vuole tempo e tenacia per affermarla".